Progetto di autodrammaturgia "La nostra Tempesta"
Contributo letterario alla pubblicazione del libro
I DONI DI TALIA, Le maschere, La speranza
Edito da Odradek
Introduzione e promozione editoriale Dott.ssa Maria Eugenia Pesce
Non
c'e teatro senza attore non c'e attore senza spettatore.
Se
dovessi agire, creare, inventare,
pensare,
parlare,
comunicare, ascoltare, sentire,
toccare, immaginare.
Se
dovessi richiamare i miei sensi
a poggiarsi su un piccolo spazio
di cielo interiore
e cercare,
trovare armonie, assonanze,
canti, parole, silenzi, ritmi, suoni, colori, forme.
Quando il
grido si fa canto
e la luce riflette ombre nascoste
e il
pulsare dell’anima accompagna il ritmo del cuore.
Allora sono un
attore
Questa è la
mia maniera di sentirmi attore ed è un modo per comunicare ai
“miei attori e attrici”, ai miei amici e
amiche, al “mio”gruppo di teatro, uno stato d'animo, un
ringraziamento, una sensazione, un sogno. Spesso Shakespeare nei suoi
scritti, usa la metafora del sogno per descrivere due aspetti della
vita, il lato sognante, l'immaginario, il creativo, e la realtà
quotidiana.
Il teatro è
anche il luogo dove questi due aspetti possono co-esistere.
I
“miei attori e attrici” li chiamo così perché sò
che per loro io sono il regista il loro “maestro” ma anche loro
per me sono i “miei maestri” di vita.
Sono tanti gli anni che ci
conosciamo, per voi che ancora siete con me sono forse quattro?.... o
sono forse otto?.....no, dieci anni!...
quindici....,diciassette!!!! una parte di vita trascorsa insieme.
Parlerò
di loro e di me, del percorso intrapreso insieme, e che ancora
prosegue, con “commozione”, anche nel senso di “muoversi
insieme” perché anch'io ho sempre pensato che
(è qui che il teatro raggiunge lo scopo sociale più
alto: nell'unione e nella condivisione di una realtà che ci
appartiene profondamente... (A. Fantechi).
Mi viene naturale cominciare a
parlare della mia esperienza, partendo da quello che ho ricevuto da
essa, perché di quello che ho dato come regista e come
artista, se ne ha la percezione dal prodotto artistico che questa
esperienza comune ha generato.
Ma
si sa che un lavoro teatrale è sempre un lavoro fatto insieme
e l'apporto alla sua qualità non può essere che
collettivo.
E'
stato quel “muoversi insieme”, in cui il Centro Diurno di Via
Ventura DSM RME Modulo 19, ha avuto un ruolo fondamentale e
che mi ha dato la possibilità di crescere a livello
esistenziale ed artistico. Quel
“muoversi insieme” che ha reso possibile operare la “quadratura
del cerchio” della mia ricerca teatrale, con l'applicazione delle
tecniche di lavoro sull'attore nel campo sociale. E'
stato quel “muoversi insieme” che ha fatto scaturire in me
l'immagine poetica de “La
costante variabile”, che è un' idea generata dalla necessità
di elaborare una minuziosa scomposizione degli elementi di lavoro,
affinché vengano compresi ed assimilati, sia a livello
intellettuale che corporeo, nei contesti sociali più
disparati. Ogni elemento del lavoro
sull'attore, poteva essere inteso come una “costante” che aveva
la sua variante. Il lavoro sul corpo dell'attore,
inteso come costante, ha la sua variante nelle innumerevoli
scomposizioni che degli esercizi si possono operare, ponendo
l'attenzione alle singole parti del corpo, es: in quanti modi si può
muovere una mano? Il lavoro sul movimento inteso come costante, ha
la sua variante nelle innumerevoli modalità di posizionarsi
nello spazio, ma anche nelle infinite scomposizioni che del ritmo di
un singolo movimento si possono elaborare. Il canto inteso come costante,
ha sua variante nell'espressività, la ritmica, la tonalità,
il timbro, ma anche la necessaria scomposizione di ogni esercizio
vocale necessario all'acquisizione di una possibilità
espressiva canora, ecc.........( lo sviluppo di questa idea sarà
parte integrante di un mio libro di prossima pubblicazione).
Questa nuova angolazione, questo nuovo punto di osservazione, ha
contribuito a rendere a me stesso più chiari, gli elementi
della mia ricerca, arricchendo in modo straordinario la mia
esperienza. Ma ho già parlato troppo
di me, vorrei tornare ai miei amici ed amiche, compagni di percorso. Quante volte ho pensato che
questi attori anche se non professionisti avevano dei comportamenti
professionali che nulla avevano da invidiare a “certi
“professionisti. Quante volte ho visto superare ostacoli e
frustrazioni e ripartire dopo aver subito un contraccolpo. Delle
volte quando l'andare in scena in relazione ad una data che non
poteva essere cambiata, richiedeva uno sforzo ulteriore, loro
l'hanno fatto. Quante volte tutto questo vissuto è stato di
sprone, di esempio, quante volte ripensando alla loro tenacia, ho
preso lo spunto, per superare i miei momenti di fragilità. Sempre, la mia fatica è
stata ripagata dalla loro dedizione, dalla qualità del
prodotto artistico, dal calore delle loro anime, perché
abbiamo faticato insieme, come insieme ci siamo commossi, ed insieme
abbiamo raggiunto dei risultati di inusitata bellezza. A volte mi è
capitato di pensare che avevo chiesto troppo, che mi ero imbarcato in
un'avventura troppo grande, ma loro, sorprendentemente, capaci di
colpi di reni di inusitata potenza, sono riusciti ad andare in scena
insieme a me, a Giuseppe (di cui parlerò in seguito)
agli attori del T.A.M. (Teatro Arte in Movimento, di cui sono il
direttore), e a tutti i volontari, alle persone del servizio civile,
agli operatori del Centro Diurno. Spesso mi sono commosso
nell'apprezzare la qualità del loro linguaggio artistico, un
linguaggio nuovo, al quale il grande pubblico ancora deve abituarsi,
grazie alla poesia della loro presenza scenica, che si traduce in
una grande qualità espressiva. Questo gruppo, è stato in
grado di seguirmi con entusiasmo nel percorso di formazione sull'arte
dell'attore ed apprendere tutti quegli elementi che sono alla base e
che portano allo sviluppo della mia didattica teatrale, impegnativa
per la complessità degli elementi che la compongono. La loro
dedizione, la loro tenacia gli ha permesso per mezzo di un assiduo
lavoro, di raggiungere l'obbiettivo che io mi prefiggo per ogni
attore e che ne completano la figura: l'interpretazione del testo, il
canto, la danza.
“L'opera da tre soldi” e
“Rugantino”, che prevedono l'applicazione di tutti questi
linguaggi espressivi, hanno dato inizio ad una fase importante
dell'esperienza teatrale; difatti le due opere sono state
rappresentate come “recitals” o sotto forma di spettacolo, in
luoghi diversi da quelli a loro abituali e protetti, partecipando a
festival e manifestazioni teatrali anche Internazionali. Ma è
stata l'esperienza della tournée di “Rugantino” svolta
anche in condizioni ambientali a volte difficili, come può
capitare a qualsiasi attore in tournée, che “I Teatranti
Della Ventura”, come amano chiamarsi ed essere chiamati, ha
consolidato quell' amalgama preziosa che si esprime per mezzo della
qualità delle relazioni e del mutuo aiuto, che definisce un'
identità, un esserci, un “darsi voce”.
Vorrei pensare a questo scritto
come ad una lettera aperta che racconti di costellazioni di sogni, di
emozioni, di sentimenti; un mondo parallelo a quello quotidiano che
riempie la vita di un sorriso, un pianto, un battito di mani e una
lacrima, un abbraccio, un “forza ce la farai”, un fiore portato
da una bimba in palcoscenico a dire......bravi, ci è piaciuto.
Quante volte il gruppo ha detto
quel “forza ce la farai”! Sento che lo scrivere mi conduce
verso un piano emozionale, dove i ritmi delle immagini a volte si
susseguono senza rispettare un'ordine specifico, ma seguono l'onda
del cuore dove l'anima a volte passando tra lentezze e accelerazioni
si tende e si distende in vissuti atti a raccontarci.
Stefano,
la
dolcezza e la tenerezza del tuo essere,........ .ricordi “Il
cerchio fatato”, lo spettacolo nato dal progetto F.A.T.A.? (Fuoco
Aria Terra Acqua; la prima volta che applicavo quelle tecniche che
chiamo di auto-drammaturgia in un contesto di teatro sociale ) L'Aria
ti ricordava Tarzan che volava da un ramo all'altro.....incontrava
una ragazza che gli faceva una sciarpa e poi, tenendosi per mano se
ne andavano via?....e tu suonavi la chitarra come nella prima
versione de “L'opera da tre soldi” nella quale entravi in scena
leggendo il copione? Passo dopo passo sei riuscito a superare questa
tua difficoltà ed ora anche con il piccolo aiuto del
suggeritore, quando serve, basta la prima parola e la battuta fluisce
tutta, anche lunga. Ma chi è quell'attore di teatro che non ha
bisogno di un suggeritore? Di te ricordo la poetica gestualità
di Teseo nel “Sogno di una notte di mezz'estate” ricavata dalle
arti marziali, che tu ami, la simpatia che generavi nel pubblico con
l'interpretazione di uno dei componenti della “Gang” di Mackie
Messer nella seconda versione de “L'opera da tre soldi”, nella
quale hai anche cantato come parte del coro di scena, la bellissima
caratterizzazione dello scultore Torwaldsen e l'appassionata
interpretazione di “Ciumachella de trestevere” come parte di un
quartetto canoro dei “Serenanti” in “Rugantino” . Di te
ricordo la bravura con la chitarra, quel
tocco di magia che ha riempito di poesia il palcoscenico ed ha
trovato l'entusiasmo del pubblico.
Beatrice,
dal
carattere a volte veemente, ma dolcissimo, sempre positivo,
entusiasta di natura, sempre pronta a spronare gli altri, sei attrice
capace di un'impronta interpretativa personalissima e che sorprende
per la naturalezza che riesci a dare ai personaggi che interpreti.
Hai
acquisito una tale padronanza del palcoscenico che ami e sul quale
ti piace tantissimo stare, che a volte rendendoti conto che puoi
avere un'esitazione di memoria con gesti accorti, che il pubblico non
vede, ti metti in contatto con il suggeritore e lo esorti, con un
atteggiamento da attrice esperta nell'arte del palcoscenico a
“porgerti” la battuta. Ti ricordo correre mentre avvolgevi con un
sarji indiano il tuo compagno di scena, sospinta da un coro Gospel e
un brano tratto da “Il piccolo principe” nello spettacolo “Il
cerchio fatato”, era un' azione di grande energia. Ricordo il
gesto delle due dita poste, a sorpresa, in segno di vittoria, verso
il pubblico nel momento in cui l'obbiettivo di sposare Laurie era
stato raggiunto. Lo spettacolo era una rilettura comica di “Piccole
donne”, dove tu interpretavi appunto il personaggio di Amy. Grazie
alla tua qualità interpretativa, sei passata con grande
facilità da personaggi romantici come quello della ragazza che
riceveva una dichiarazione ne “La domanda di matrimonio” di
“Checov “che a te piaceva tanto, alla regalità di Titania
la regina delle fate che hai interpretato con entusiasmo perché
a te questi ruoli piacciono particolarmente. La tua interpretazione
comica nel personaggio della moglie del ladro in “Non tutti i
ladri vengono per nuocere” era così spumeggiante che quando
ho rivisto per la prima volta lo spettacolo in video, ho riso tanto,
grato per avermi dato un momento di autentica spensieratezza. La impegnativa prova nel ruolo
della moglie di Peachum, la madre di Polly, ne “L'opera da tre
soldi”, ti ha chiamato ad un ruolo drammatico al quale tu hai
saputo aggiungere un aspetto di grande umanità. In quello
spettacolo hai cominciato anche a cantare e a ballare. Le tue grandi
capacità di attrice, ti hanno dato modo di impersonare in
“Rugantino”, lo spettacolo che ti è piaciuto di più,
i personaggi di “Donna Marta” una nobile romana e della “Signora
dei gatti”in una versione simpaticissima. Anche in questo
spettacolo hai ballato e cantato, felice di farlo. Come non pensare
alla tua la tua “verve” comica, sempre pronta ad elargire battute
anche in situazioni “semplicemente” sociali. Il tuo entusiasmo la
tua voglia, il modo di stare in scena, il pubblico l' ha sempre
sentito ed apprezzato, applaudendo, tantissimo.
Emanuele Cau,
pacato, riflessivo, ma ti
accendi in momenti di energia inusitata che bene esprimi nelle azioni
coreografiche, i tuoi interventi nelle riunioni di gruppo che seguono
ad ogni spettacolo, o ad una discussione che impegna il gruppo, sono
sempre sagge. A volte ti apparti a fumare, a riflettere, amante della
buona musica che sempre porti con te e che ascolti durante il giorno
con le cuffie e il lettore C.D. portatile. Padrone del tuo tempo e
del tuo ritmo affronti un viaggio di ritorno di un'ora e mezza per
tornare a casa. Hai scritto un lavoro drammaturgico, autobiografico,
che sono stato ben felice di mettere in scena perché questo è
uno degli intenti del laboratorio. Una storia creata da te ed in
parte elaborata insieme per quanto riguarda la struttura della
sceneggiatura, interpretata da te nella parte del protagonista e dai
compagni e compagne di laboratorio, nelle parti degli altri
personaggi. “Il vagabondo”, era il titolo della tua opera,
nella quale raccontavi di un personaggio che attraversava un periodo
della propria esistenza difficile ma che poi per mezzo dell'amore
trovava la forza di andare avanti. Quest' opera era forse lo specchio
del periodo che stavi attraversando, non facile per te. Quell' anno
il gruppo trovava una certa difficoltà a gestire le sue
dinamiche, era un pò dispersivo, allora, mi dicesti che
nonostante tutto il laboratorio di teatro era il luogo nel quale
riuscivi a star bene a lasciare indietro le tue preoccupazioni, anzi
era la sola cosa che ti faceva stare bene. Questo tuo vissuto, ha
avuto un ruolo positivo, perché alla fine sei stato in grado
di andare in scena, valorizzando il tuo lavoro e te stesso. Li per lì
non sembravi soddisfatto del risultato ottenuto, avevi come un senso
di insoddisfazione, una sorta di distacco emozionale che ti procurava
qualche fastidio. Mi ricordo che ne parlammo e ti dissi che delle
volte capita anche a me avvertire un certo distacco dalle cose
creative che faccio, come se il cuore dovesse abituarsi a convivere
con la cosa appena creata. In un secondo momento sono stato contento
di sapere da te che se dovessi proporla di nuovo lo faresti
volentieri. Ti ringrazio della riconoscenza che mi hai dimostrato, ma
grazie soprattutto per aver creduto nel laboratorio di teatro.
Ricordo ancora come ti divertivi nel fare la parte del nonno-vampiro
in “Piccole donne” o uno dei mariti coinvolti in “Non tutti i
ladri vengono per nuocere”. Ricordo la dolcezza che la tua
interpretazione ha dato al personaggio di Rocchetto in “Sogno di
una notte di mezz'estate”, di come hai affrontato la durezza di
“Peachum” nell'opera da tre soldi, dove insieme al tuo
entusiasmo per il ballo, c'era l'impegno di affrontare un personaggio
completamente diverso dalla tua natura, ma che hai saputo rendere
nella giusta maniera. In fondo il teatro è anche a questo che
ci chiama: assumere la responsabilità di mettere in luce anche
gli aspetti negativi dell'essere umano. Ma ricordo ancora la
splendida interpretazione di Mastro Titta in “Rugantino”, un
personaggio che al di là del lavoro che faceva aveva una
umanità che hai saputo rendere nella sua dimensione più
poetica, soprattutto quando hai cantato pieno d'espressività e
con un' intonazione perfetta, “E' bello avè na donna dentro
casa”, come altrettanto perfetta era la tua intonazione nel
quartetto canoro dei “Serenanti”che cantavano “Ciumachella de
trestevere”. E' per questo che il pubblico ti applaude.
Fabio,
preciso nei rituali di
preparazione, in camerino, prima dello spettacolo, ti ricordo
proporre entusiasta, aspetti caratteristici del personaggio del
turista ne “Il vagabondo”, la tua prima interpretazione nel
gruppo di teatro. Ricordo la tua passione nell'interpretare il ruolo
di Oberon nel “Sogno di una notte di mezz' estate” con quel tocco
di ironica comicità che proponesti nel fare indossare ad
Oberon, in un momento dello spettacolo, un casco da motociclista.
Una invenzione che il pubblico apprezzò tantissimo, ricordo
la impegnativa interpretazione di Brown, il capo della polizia,
personaggio non facile da interpretare, ma che hai “inquadrato”
nella giusta maniera. Il tuo canto intonato che ha avuto un' inizio
promettente nei cori de “L'opera da tre soldi” ha trovato spazio
in “Rugantino” nel simpatico duetto con Rosetta nella canzone
“Anvedi si che paciocca”, nel quartetto dei “Serenanti” in
“Ciumachella de trestevere”, ma soprattutto si è espresso
in tutta l'ampiezza delle possibilità espressive che sono
nelle tue “corde” nella canzone “Tirollallero”,
l'interpretazione, romantica, appassionata, di una canzone che faceva
riflettere sui temi dell'amore. La tua “poliedricità”
interpretativa ti ha dato modo, sempre in “Rugantino” di
indossare anche i panni di personaggi come Don Niccolò
Paritelli, un nobile romano e il Cardinale Severini una figura di
prelato interpretata conferendo al personaggio, oltre che la vena
comica, anche una certa “ieraticità”. Il pubblico ha
sempre apprezzato l'eleganza che trasmettevi ai personaggi che hai
interpretato. Quella eleganza che caratterizzava i tuoi interventi,
quando in occasione di qualche replica in situazioni importanti hai
chiesto di parlare, hai sempre dimostrato un animo attento e
cortese.
A volte sei venuto al
laboratorio preoccupato, assorto altre volte ci hai comunicato le tue
preoccupazioni che riguardavano vari aspetti della tua vita e il
dialogo con il gruppo ti ha aiutato, come tu dicevi, ad elaborare le
tue inquietudini. Io vorrei dirti però come
conduttore dei laboratori che, comunque alla fine ci sei riuscito,
hai portato in scena lavori anche complessi, hai superato momenti
difficili, hai calibrato il tuo carattere a volte irruento e l'hai
reso semplicemente spumeggiante. In alcuni casi mi è parso di
vederti entrare in percorsi che sembravano senza uscita, ma sei
riuscito a cambiarli, hai trovato l'uscita.
Massimo,
gentile nell'animo, sognante,
amante del tennis e della pittura , ti diletti a disegnare con la
matita le immagini di quadri appesi nel corridoio all'interno del
Centro Culturale Ditirambo, Sede del T.A.M. dove vengono tenuti i
laboratori di teatro, continuando in un certo senso la tua attività
di pittura che pratichi all'interno del Centro Diurno. Mi ricordo
della tua difficoltà iniziale a impersonare il ruolo di
Tassello, il carpentiere, che interpretava la parte del “Leone”
nella recita che gli artigiani rappresentarono presso la regia di
Teseo e Ippolita, il giorno delle loro nozze. Quella volta sei
riuscito con la sorpresa di tutti, a vincere la tua timidezza e la
voce del leone si materializzò con la potenza giusta, degna
del leone che ruggisce. Ne “L'opera da tre soldi” il tuo
personaggio il “Reverendo Kimbal” non era facile, ma sei
comunque riuscito ad andare in scena e ad infondere al personaggio
la tua simpatia. La tua voce fu chiara e potente nel personaggio del
“Il Brigadiere” in “Rugantino” e la tua commozione era
visibile sul tuo viso, specchio di una sensibilità non comune
quando ai fatto parte del coro dei Serenanti nella canzone
“Ciumachella de trestevere”. Il tuo impegno è stato così
grande che hai trovato la capacità di trasformare la tua
commozione in ironia per interpretare il ruolo dell' “Innammorato”.
Ancora più grande fu la sorpresa di tutti, quando nei panni
dello stesso personaggio, fosti in grado di mostrare la giusta
aggressività scenica che era necessaria nel duello rusticano
che ingaggiasti con “Gnecco” interpretato da Giuseppe, che
insieme a me ti ha esortato a non aver paura di una finzione scenica.
E' stato difficile per il tuo animo sensibile, messo a dura prova,
ma ce l'hai fatta, perchè come dicevo il teatro ci porta ad
interpretare ruoli talvolta ostici. Sono sicuro che queste esperienze
servono ad elaborare dei vissuti, delle volte a superare delle paure
o ad avvicinarsi ad esse. Mi ha commosso molto ed è rimasta
nella mia mente,chiara, precisa, netta, drammatica, commovente, la
tua interpretazione della canzone del detenuto “A tocchi a tocchi
na campana sona”. Era bello vederti danzare felice, sulle note di
quel canto d'amore che è “Roma non fa la stupida stasera”.
E' per quello che sei, è per quanto riesci a commuovere che
il pubblico ti applaude.
Novella, Vilma,
Premetto che queste due lettere
per voi un po' più lunghe perché parlare di voi fa
parte di quel periodo in cui la vostra presenza ha segnato un
momento di passaggio importante nella storia del gruppo e quindi
userò l'occasione, per parlare anche della vita del gruppo
tutto.
Vilma
Un' attrice si muove sulla scena,
sta dando vita ad un' azione espressiva, il risultato del fissaggio
di una improvvisazione elaborata durante il laboratorio di
espressività corporea. L'attrice prende tra le mani un
pantacollant colorato, lo manipola e con un gesto deciso infila la
sua testa dalla parte della vita, coprendosi viso, come un cappuccio
dentro il quale la sua testa a il suo volto scompaiono, poi lo usa
come un copricapo ed infine usando la parte delle gambe a mò
di sciarpa conclude l'azione.
L'immagine è affascinante
perché rimanda allo spettatore una percezione singolare, uno
spostamento di lettura dell'immagine scenica di un volto, una testa e
un corpo che si trasformano.
Una allieva accetta di eseguire
un esercizio, non era obbligata a farlo, l'esercizio è
impegnativo perché bisogna rotolarsi dentro una lunga stoffa
indiana e lei soffre di claustrofobia: Lei sceglie di eseguire
l'esercizio, arriva una crisi di claustrofobia della quale soffre, ci
parliamo, supera la crisi e dalla volta dopo comincia a lavorare
sull'azione scenica descritta. Questa sei tu Vilma. Questa è
la tua forza, questa è stata la prima prova che hai superato,
grazie a te stessa e alle tue capacità.
La tua seconda volta in scena,
ancora per mezzo di un processo di auto-drammaturgia, elabori un' azione usando dei rami di
eucalipto. L'azione, poetico-espressiva era realizzata per mezzo di
tecniche teatrali che si basano sul “ripescaggio” emozionale di
esperienze di vita. Ci narravi di te bambina e dell'incontro,
felice, con un altro bambino, che ti aveva lasciato un bel ricordo.
L'accompagnavi con uno scritto poetico scelto da te che parlava di
un futuro positivo e tu eri felice nel ricordare quell'avvenimento.
Eri felice di sentire di nuovo il tuo corpo..
Le mie indicazioni di lavoro,
che tu con impegno e tenacia seguivi nonostante le perplessità
iniziali, andavano verso il tentativo di sciogliere la tua
contrazione muscolare.
Applicarti a questo compito ti
ha permesso di tornare a percepire il tuo corpo e usarlo come
possibilità espressiva. Hai cominciato a muoverti con meno
impaccio, più sicura, più tranquilla, pervasa da una
grande energia.
Poi venne il “Sogno di una
notte di mezz'estate” e tu eri Ippolita, regale, importante, la tua
prima interpretazione di un ruolo di attrice che hai portato a
termine benissimo, spigliata e sicura, anche se questo non sembrava
essere il tuo parere. Era come se non volessi accettare gli elogi,
certamente disinteressati, che ti venivano da tutte le parti, me
compreso, non completamente convinta delle tue possibilità.
Questo fu un grande tema di riflessione svolto anche all'interno del
gruppo, e che hai portato avanti per molto tempo, ma della sua
evoluzione parleremo più tardi. Fu uno spettacolo con un
primo accenno al canto, bellissimo, anche grazie all'apporto di tutti
i componenti del laboratorio di teatro. Era l'inizio di una fusione
con il gruppo di espressività corporea, che per mezzo di
coreografie poetiche invitava alla danza gli altri attori. Fu cosi
che si formò un gruppo di attori che si esprimeva anche per
mezzo della danza e del canto.
Poi venne “L'opera da tre
soldi”, qui tu e le altre componenti del laboratorio di
espressività corporea, avete dato vita al balletto di apertura
dello spettacolo, sulle note della canzone di Macki Messer cantata da
Bin Crosby. Il balletto era stato realizzato per mezzo di simpatici
movimenti ironici scelti per la maggior parte da voi, e da me
coreografati. Prendevano parte a quella coreografia anche “Dudi”
Cingolani, come responsabile psicologa dei laboratori di Espressività
Corporea per il Centro Diurno e Annelise Battella, una delle
allieve-attrici del T.AM. Tu interpretavi la parte di
Jenny, personaggio impegnativo, in un ruolo scabroso, ma pervaso da
grande umanità, portatrice di una denuncia verso quella
cultura maschile che tende a svilire la figura ed il ruolo della
donna nella società . Era la prima volta che il teatro ti
chiamava a prenderti la responsabilità di rappresentare anche
i lati difficili dell'esistenza. D'altra parte questa era la grande
tematica che ha accompagnato tutta la preparazione de “L'opera da
tre soldi” di Brecht. Questa esperienza ci ha chiamato
entrambi ad una prova impegnativa. Io nel comunicarla tu
nell'accettare la mia decisione, difficile, che poteva sembrare dura,
ma era una decisione presa per salvaguardare la tua dignità di
attrice. Avresti dovuto trasformare l' interpretazione cantata di una
canzone, in una interpretazione recitata, perché quel testo
non era ancora nelle tue “corde”, nonostante le prove
effettuate. Ci furono lacrime per te e una stretta al cuore per me
nel momento in cui fu necessario comunicarti questo, perché
non è facile per un regista comunicare una cosa del genere e
soprattutto se il regista, come nel mio caso è anche
conduttore dei laboratori. La tua reazione è stata
magnifica. Dopo un primo momento di un tuo comprensibile smarrimento,
ci siamo messi in un angolo del teatro e abbiamo elaborato la nuova
“veste”del brano. Avverto ancora la presenza discreta dei nostri
compagni di lavoro che rispettavano questo momento di difficoltà
e che poi non ti hanno fatto mancare il loro appoggio umano, espresso
in tanti modi. Tutti hanno trovato il momento per farti sentire il
loro calore e dirti : dai che ce la fai, sei bravissima!! L' interpretazione di quel testo
fu di una intensità straordinaria, che probabilmente ha
valorizzato certi aspetti della denuncia di Jenny, a dimostrazione
che sentivi il personaggio. Il pubblico ha applaudito a scena
aperta. Anche quella volta hai ricondotto
all' interno del gruppo la tematica della tua insoddisfazione,
d'altra parte venivi da un'esperienza non facile. Ma hai cominciato
ad apprezzare sempre di più il valore dell'apporto del gruppo. Poi venne la commedia musicale di
“Rugantino” e tu ancora una volta non “sentivi” il
personaggio che ti avevamo assegnato. Queste figure femminili avevano
qualcosa che a te non piaceva, ma Giuseppe mi esortava a pensare che
sviluppare questa tematica per te era importante e alla luce dei
risultati, non posso dargli torto. Avevi timore che la tua immagine
sociale sarebbe stata quella del personaggio che interpretavi e non
come l'avresti interpretato, quale anima avresti dato al
personaggio. Seguendo questo ragionamento, se un attore interpreta un
ladro, un assassino, bisogna considerarlo tale? Era come se il cliché
esteriore fosse molto più importante dell'anima. Ma questo è stato uno dei
temi più importanti affrontati dal gruppo, da sempre, insieme
al ruolo sociale dell'attore. Hai lavorato Vilma, hai lavorato
molto anche in questa direzione e lentamente hai cominciato ad
amare il personaggio di Eusebia che sì, si arrabattava per
vivere, come anche “Rugantino”, tuo compagno di avventure, ma
era piena di umanità. Quell' umanità che le ha fatto
apprezzare l'amore che “Mastro Titta” aveva per lei e l'ha
aiutata a capire quanto fosse importante quel sentimento. La tua
interpretazione è stata bella, ariosa, comica, drammatica,
specialmente nei monologhi, resi con grande espressività e
qualità interpretativa, soprattutto sentita, come sai
“sentire” tu i personaggi del “nostro” teatro. Non
dimenticherò certo la tua capacità di reazione ai
fuochi artificiali che furono fatti sopra le nostre teste durante la
rappresentazione in tournée. Sei stata talmente abile nel
reagire alla situazione che ne hai ricavato delle battute molto
apprezzate dal pubblico.
Novella
La prima immagine che ho di te è
quella di una persona che desiderava appartarsi, separarsi dagli
altri come se il proprio mondo interiore fosse in conflitto con
l'esterno. Te ne stavi da sola, seduta sulle scale, che erano in
un'ala del corridoio del Centro Culturale Ditirambo, sede del T.A.M.
dove c'era la sala nella quale si tenevano i corsi di espressività
corporea e di teatro per conto del Centro Diurno di Via ventura. Ti
venni vicino e ti dissi: “Noi siamo lì, nella stanza, vieni
quando vuoi”.
Dopo un po', ci raggiungesti. Si capiva dal tuo modo di
muoverti che il tuo era un corpo abituato al movimento, aveva una sua
cultura. Ora bisognava che questa cultura fosse condivisa, aggiustata
ad un contesto diverso, quello espressivo-corporeo. Quello che
dissi a te è quello che dico sempre ai danzatori che si
iscrivono ai miei laboratori; è necessario, per un periodo
“dimenticarsi “ della danza, questo non vuol dire tradirla, ma
fare posto ad una possibilità espressiva e di movimento
diversa. Quando la danza riapparirà sarà arricchita da
una espressività più personalizzata.
L'espressività corporea è
quella possibilità che un attore (inteso come colui che
agisce), si dà per elaborare un movimento che non faccia
riferimento ad uno schema e che gli dia la possibilità di
esprimersi attraverso una propria forma poetica. E' un percorso
anche sulla gestualità, è apprendere come inventare,
un “proprio” movimento, è l'acquisizione di una propria
qualità espressiva. Mi ricordo del tuo timore di
agire un'azione in relazione al pavimento, sembrava per te una cosa
quasi impensabile, ma ti cimentasi anche con questa possibilità,
con successo.
Spesso il tuo modo di
porti è stato caratterizzato da un'iniziale titubanza che alle
volte è arrivata ad esprimersi con un rifiuto, iniziale, ad
accettare nuove proposte di lavoro sia nella danza che
nell'interpretazione del testo o nel canto, ma a questo ha fatto
riscontro poi un impegno che produceva un risultato di qualità.
Con l'andare del tempo il gruppo
di espressività corporea aumentò di numero, progredendo
nel suo percorso di formazione. Aveva già portato in scena
due dimostrazioni di lavoro spettacolarizzate, e fu naturale per me
pensare che quel nucleo sarebbe stato in grado di essere parte
integrante del prossimo lavoro che il laboratorio di Teatro stava
proponendo il “Sogno di una notte di mezz'estate” di Shakespeare.
Ero felicissimo per quello che stava accadendo. La fusione di due
possibilità espressive, la danza e il teatro. Gli attori
necessari alla costituzione del cast erano tanti, perché tanti
erano i protagonisti dello spettacolo e fu naturale che gli stessi
allievi del corso di espressività corporea agissero anche come
attori. Nello spettacolo il tuo personaggio era “Zeppa”
l'artigiano-regista incaricato di preparare gli attori per la recita
finale in occasione delle nozze di Teseo, duca di Atene e Ippolita,
la regina delle Amazzoni. In quell'occasione cominciasti a tirare
fuori la tua “grinta”. La danza e il testo si fusero in un
armonica forma. Eri felice.
“L'opera da tre soldi” era
un lavoro complesso, impegnativo, veniva indicato dalla critica
internazionale come “un magnifico esempio di arte totale”. Per
la prima volta il gruppo si sarebbe cimentato con uno spettacolo che
includeva oltre all'interpretazione del testo anche il canto e la
danza. Il laboratorio era diventato più complesso, c'era una
parte dedicata al canto, sia individuale che corale, si provavano
coreografie collettive a volte accompagnate dal canto e tu hai anche
realizzato un oggetto scenico. Le prove furono lunghe, le
vicissitudini del gruppo complesse, ci fu un riassetto nella
conformazione del gruppo che provocò un cambiamento
nell'assegnazione delle parti. Ma il teatro, inteso anche come
esperienza collettiva, è la rappresentazione della vita e a
volte ci chiede di affrontare, ed elaborare, momenti nei quali una
persona a noi cara può avere la necessità di
allontanarsi, perché la vita la chiama ad impegni diversi.
Sia te che il gruppo, in
quell'occasione, avete dimostrato una forza non comune.
Grazie a quel “muoversi-insieme”
di cui parlo all'inizio di questo mio scritto, nonostante tutto siete
riusciti a portare in scena uno spettacolo di grande qualità. In scena c'erano degli attori e
delle attrici che oltre all'interpretazione del testo, danzavano,
cantavano. La vostra energia era stupenda. Nello spettacolo interpretavi la
parte di Polly, la Figlia di Peachum, il re dei mendicanti. Fu allora che la “grinta” che
hai cominciato a tirare fuori con Zeppa ti è tornava utile per
portare in scena il personaggio di Polly, ribelle, irriverente,
ironico, a volte strafottente, ma anche pieno di poesia. Un
personaggio anche romantico, che parlava d'amore. Un personaggio che
ti aiutava ad elaborare la complessità delle tue relazioni
famigliari. Che ti ha aiutato a far emergere parti del tuo carattere
e della tua personalità che fino ad allora non avevano trovato
spazio. In questo spettacolo, che ti ha rivelato anche come cantante,
le tue interpretazioni canore hanno donato al pubblico emozioni di
grande intensità, grazie alla tua capacità espressiva,
specialmente nella “Canzone di Barbara”.
Poi venne “Rugantino”, la
famosa commedia musicale di Garinei e Giovannini, che esprimeva tutti
gli aspetti della “romanità”. I “miei attori e
attrici”accolsero questa proposta con entusiasmo perché era
un lavoro vicino alla loro cultura. Una storia “d'amore e de
cortello”, come diciamo a Roma, piena di dolcezza, rudezza e
umanità. Una storia di potenti e di popolani, una riflessione
sulle tematiche sociali, sulla politica, una finestra aperta sulla
vita. In questo spettacolo tutti avete
cantato, danzato, avete e abbiamo riso, ci siamo “commossi”
insieme. Per questa realizzazione
spettacolare, hai anche realizzato una bellissimo disegno, che poi
è servito alla realizzazione dell'oggetto scenico che
rappresentava la “Bocca della verità”. Tu interpretavi il ruolo di
Rosetta, romantica, volitiva, leale, appassionata, come è
stata appassionata la tua interpretazione, come è stato
appassionante il tuo canto, la tua danza il tuo stare in scena. Ti ho
visto affrontare questo lavoro con entusiasmo sempre crescente, con
una convinzione interpretativa, sempre più coinvolgente, eri
dentro al personaggio, completamente, capivo che Rosetta aveva
toccato delle corde “sensibili” della tua esperienza di vita,
come Polly. Eri felice di interpretare quel personaggio. Ormai avevi
acquisito anche la capacità di rotolarti per terra, cosa che
per te, all'inizio del laboratorio di espressività corporea
sembrava quasi impossibile. La tua interpretazione della canzone
danzata, “Na' botta e via” è stata bellissima,
drammatica, commovente. Una sera, in tournée, venisti a
comunicarmi che avresti interpretato la canzone che il giorno prima,
sembrava non saresti stata in grado di portare in scena, appunto “Na
botta e via”. Apprezzai molto questo tuo gesto in quella
circostanza e ti comunicai la mia grande soddisfazione di regista nel
constatare che eri stata in grado di reagire ad una situazione di
difficoltà, il tuo era stato un comportamento da vera
attrice. In questa tournée, il mutuo aiuto nelle situazioni
di difficoltà personali, la capacità di adattamento ad
una situazione non abituale, la gioia e l'allegria che hanno
accompagnato l'esperienza hanno contribuito ad elevare lo spirito di
corpo e la qualità della “personalità” del gruppo.
Emanuele Conte,
grande comunicatore, ti diletti
nel reinventare, per gioco, il significato delle parole, che spesso
esprimi con ironia o comicità, in battute o discorsi che
coinvolgono tutto il gruppo.
Il tuo approccio con i laboratori
del Centro Diurno tenuti presso il T.A.M., ha avuto una fase
iniziale con l'espressività corporea, alla quale hai
partecipato per un certo periodo di tempo.
Poi ti sei allontanato dal
laboratorio, i referenti del Centro Diurno mi dissero, che stavi
passando un momento nel quale sentivi la necessità di
elaborare un distacco da quel lavoro. Compresi che il tuo percorso di
vita aveva bisogno di un' altro contesto. Fui felice nel vederti
apparire di nuovo nella stanza di lavoro, avevamo messo in scena
“Sogno di una notte di mezz'estate”, e tu mi dicesti che ti eri
commosso fino alle lacrime nel vedere sulla scena, i tuoi amici o le
persone che conoscevi, dei quali ne apprezzavi le qualità
interpretative. Era il lavoro di gruppo che si percepiva durante la
rappresentazione che ti aveva colpito. Quel gruppo, pieno di calore
umano, di cui poi hai fatto parte, del quale hai sempre parlato con
positività e riconoscenza , per l'importanza che ha avuto
nella tua vita nel farti capire meglio situazioni personali e che
hai, con il tuo atteggiamento, aiutato a superare un momento di
difficoltà.
In quel momento si stava
elaborando la messa in scena de “L'opera da tre soldi”, il
lavoro era molto complesso ed impegnativo. Superati i primi momenti
di un qualche imbarazzo iniziale, naturale in chiunque si avvicina
per la prima volta all'esperienza teatrale, fosti in grado, di
acquisire con facilità, le capacità espressive
necessarie ad interpretare quel lavoro, compresa quella del canto. In
questa occasione hai dato prova di grande collaborazione, dando il
tuo aiuto alla realizzazione di alcuni oggetti scenici. Il ruolo
affidatoti, fu del protagonista “Mackie Messer”. Era
indubbiamente un personaggio complesso, per mezzo del quale
l'autore, (Brecht) elabora un discorso socio-politico di denuncia dei
mali della società, come molti dei personaggi da lui creati
per i propri spettacoli .
La tua interpretazione è
stata molto bella, di qualità, le tue capacità
attoriche si sono rivelate naturali, insite nel tuo carattere, a
volte simpaticamente istrionico, che in alcune circostanze ha bisogno
di essere contenuto.
Ricordo benissimo che quelle
erano tematiche che ti coinvolgevano profondamente in relazione alla
tua visione della vita. Erano tue riflessioni che accompagnavano il
lavoro che il gruppo faceva in relazione allo studio dei personaggi,
come parte integrante del lavoro di laboratorio. Ma il teatro anche per te, come
per tutti gli attori che lo praticano e gli spettatori che ne
usufruiscono ha questo aspetto “catartico”. In fondo è uno strumento
inventato dal genere umano per potere con “commozione” aiutare se
stesso a vivere.
Il secondo spettacolo al quale tu
hai preso parte da protagonista è stato Rugantino. Anche
questa volta affrontavi un personaggio di grande complessità
che, vittima di un potere sociale e politico, riscatta la sua
condizione esistenziale, grazie all'amore. Ricordo le riflessioni
sulla chiusura dello spettacolo che sembrava troppo cruenta, ma
necessaria a livello scenico, per il discorso di fondo sui valori
dell'uomo, di cui l'opera era intrisa. Ma riuscisti ad elaborare
anche questo comprendendo quale messaggio morale positivo il
personaggio rappresentava. In questo spettacolo le tue qualità
attoriche hanno preso spazio, si sono espresse nella forma migliore,
il “tuo” Rugantino è stato frizzante, commovente, comico,
drammatico. Ti sei appropriato sempre di più dello spazio
scenico hai danzato, dando grande spazio alla tua corporeità,
hai cantato, sei stato strafottente, amante, coraggioso, timoroso.
Hai gestito situazioni nelle quali un tuo guizzo e una tua battuta
hanno trasformato in comicità scenica un'esitazione, hai
dimostrato quanto fossero estese le tue possibilità
espressive. Queste sono le qualità che hai dimostrato e il
pubblico ti ha applaudito calorosamente. Alla ripresa dei
laboratori, ci hai reso partecipi di una tua grande gioia, la nascita
di una bellissima bambina, tua figlia.
Mirella,
fui contento di ospitarti nel
laboratorio di espressività corporea. Eravamo amici da tanti
anni e questo non poteva che farmi piacere.
Fui anche contento di rivederti
quando tornasti al laboratorio, dopo il periodo che ti ha visto
impegnata con lo stato di salute del tuo compagno di vita, purtroppo
conclusosi con la sua dipartita. Vedevo che il laboratorio ti faceva
bene, eri molto partecipe, emozionata per le parti che ti assegnavo,
anche se a volte questo ti ha procurato qualche imbarazzo iniziale.
Ho sempre apprezzato il tuo impegno nel laboratorio di espressività
corporea e di teatro, che continui a frequentare con assiduità.
Ti ringrazio per la collaborazione che si è manifestata
nell'effettuare anche lavori di costumistica, di aiuto dietro le
quinte al gruppo al quale non hai mai fatto mancare il tuo appoggio.
Un gruppo del quale hai fatto parte e del quale sei parte integrante.
Un gruppo che non ti ha fatto mai mancare il suo affetto, da parte
tua ricambiato. Con te vorrei ringraziare anche
Annelise Battella, ora stimata psicologa, ex allieva dei corsi T.A.M.
presente anche lei nei laboratori dalla messa in scena del “Sogno
di una notte di mezz'estate”. Grande energia vitale, una persona
entusiasta della vita con la quale hai stretto una bella amicizia.
Non potrò mai dimenticare che Annelise non ha fatto mancare
l'apporto al gruppo nonostante fosse in cinta da diversi mesi ormai,
accompagnandoci nella tournée di Rugantino.
Un grazie anche a Francesca
Amadori anche lei ex allieva T.A.M. responsabile del reparto di
Terapia Cognitiva presso la Fondazione S. Lucia, titolare di un
progetto di laboratorio di Espressività e Creativà a
favore delle persone uscite dal coma, di cui faccio parte presso
“Casa Dago”. A Cristina, Gabrielle, a Luana, e a tutte le persone
che provengono dai corsi T.A.M. Un grazie a Sabrina, che partecipa
come attrice e aiuto alla regia nella “Nostra Tempesta”.
Ai volontari ai tirocinanti, che
hanno integrato i laboratori dando un apporto importante alla
realizzazione dei progetti spettacolari. A tutto il nucleo degli
operatori del Centro Diurno di Via Ventura sempre collaborativo e
professionale.
Giuseppe
ho pensato alla lettera per te,
per noi, come chiusura nel rispetto di quell'atteggiamento che ha da
sempre contraddistinto la nostra collaborazione durante la quale,
l'attenzione primaria è stata sempre verso le persone che
compongono il gruppo di teatro, i protagonisti degli spettacoli.
Nel primo progetto spettacolare
di cui hai fatto parte, “fresco di laurea”. come responsabile
psicologo per l'attività teatrale promossa dal Centro Diurno
di Via Ventura e che portavo avanti da diversi anni, ti trovasti da
subito coinvolto anche come attore, dando prova che da parte tua
c'era la volontà a “metterti in gioco”, c'era quel
desiderio a commuoversi (muoversi insieme). Questo ha fatto si che la
tua figura sia stata accettata e vissuta come parte integrante
dell'esperienza umana ed artistica del gruppo. Fu molto bello ed “umano”
vederti ricevere l'applauso incoraggiante del pubblico che ha capito
“commosso” e partecipe una tua indecisione di “attore”,
necessariamente improvvisato. Dopo quell'esperienza la nostra
interazione si è definita sempre di più, in relazione
ai nostri ruoli. Tu hai continuato a prendere
parte agli spettacoli, con un coinvolgimento come attore, meno
impegnativo, che ti ha permesso di espletare il tuo ruolo in
maniera più definita. L'immagine del pubblico che ti
applaude è emblematica.
Sono convinto che il teatro non
sia un'estensione della psicologia, né che la psicologia sia
un'estensione del teatro. Sono due risorse, che il genere umano si è
dato, per tentare di spiegare, capire, elaborare, raccontare i
differenti aspetti della vita .Queste due risorse,
apparentemente distanti, possono però trovare una possibilità
di co-esistenza, quando sono utilizzate in un contesto di teatro
applicato nel campo del disagio mentale, se i due ruoli professionali
necessari, vengono salvaguardati e valorizzati.
Le due figure professionali,
agendo in una situazione, che io chiamo di “vasi comunicanti” ,
metteno in atto una sinergia. Permettono di sviluppare le
possibilità espressive, appannaggio della creatività,
vitali ad ogni essere umano, senza far mancare la possibilità
di elaborazione del vissuto emotivo, ad un livello terapeutico-
riabilitativo.
Tutto questo è possibile
se si da vita ad una
esperienza attuata in un contesto di sperimentazione e di ricerca,
dove i limiti che la parola teatro ci impone e quelli di un certo
pensiero scientifico, che tende ad appropriarsi dei linguaggi che
appartengono alla creatività, vengono superati.
Per questo penso che il tipo di
teatro che io applico nel contesto del disagio mentale, sia da
considerare come un teatro-in-terapia, piuttosto che
teatro-terapia.
Era di questo che parlavamo
all'inizio di questa nostra conoscenza, facendoci scoprire una
visione dell'esperienza, condivisa.
Ma anche questa esperienza,
iniziata sotto i migliori auspici, ha avuto bisogno di un periodo di
rodaggio necessario per mettere a contatto e in sinergia le due
personalità e le due discipline.
Superate le difficoltà
iniziali, la continua valorizzazione a livello artistico e il
costante sostegno psicologico, hanno permesso di affidare la parte a
chi un un primo momento non era in grado di dare garanzie di
continuità di presenza necessarie, o che aveva grandi
difficoltà ad elaborare vissuti emozionali di una certa
importanza.
Questo ha senza' altro giovato
alla qualità espressiva dell'attore, elemento essenziale nei
progetti spettacolari, e ha protetto la dignità della
sua presenza sulla scena.
Il lavoro di laboratorio, si è
indirizzato sulla possibilità di elaborare una qualità
tonale della voce, correggere una certa monotonia espressiva, uscire
fuori dai propri cliché, vincere le proprie titubanze,
elaborare le dinamiche di movimento, l'interazione, il contatto
fisico, sempre nel rispetto di una autonomia creativa.
Le mie indicazioni di regia,
mostravano loro una modalità, senza imporre un modello
espressivo. Questo ha permesso di sbloccare una possibilità
espressiva nascosta, o l'avvicinamento, in alcuni casi per la prima
volta, ad emozioni sopite o represse.
Sotto questo aspetto è
stato importante, elaborare i vissuti emozionali del personaggio, in
un luogo, il laboratorio ed il palcoscenico, dove le emozioni sono
possibili. L'amore, la passione, l'ironia, il coraggio, la forza
d'animo, il timore, la gioia e la tristezza, il pianto e il riso e
quant'altro attiene ai vissuti emozionali dell'essere umano.
Interpretare come attori questi
aspetti del personaggio, ha significato per alcuni di loro, la
possibilità di elaborare sia a livello umano, che sotto il
profilo psicologico, un percorso che li ha portati al superamento di
alcune difficoltà, anche importanti.
Sempre per mezzo di un lavoro
collettivo, grande attenzione è stata posta agli aspetti che
riguardavano la tematica, la metafora, il messaggio umano e sociale,
insito nell'opera teatrale messa in scena. Ognuno di loro ha
interpretato questi elementi secondo la propria visione delle cose,
in relazione alle sue possibilità, mettendo in luce una
varietà di interpretazioni, anche poetiche dei significati
dell'opera.
Penso che il teatro sia stato il
“collante” giusto, che anche per mezzo della tua azione, ha
permesso di elaborare dinamiche interne la gruppo stesso.
Gli spettacoli portati in scena
da questo magnifico gruppo sono stati sia drammatici che comici
mettendo in luce la duttilità interpretativa e qualità
espressiva dei suoi componenti
Abbiamo fatto insieme un percorso
nel quale ci siamo messi in gioco, noi come loro.
E' grazie a questo che la qualità
umana ed artistica del gruppo è cresciuta e “Rugantino” è
l'emblema di questa crescita collettiva.
In “Roma non fa la stupida
stasera”, l'armonia del gruppo diventa tangibile, la “commozione”
dello spettatore, partecipe, è totale, in quanto riconosce in
quello che sta vedendo, qualcosa che lo riguarda, come umanità..
Questo è lo scopo del teatro.
In
questo momento il gruppo è impegnato in un progetto di
auto-drammaturgia, applicata ad un testo già esistente. “La
nostra tempesta” è uno spettacolo che prende spunto dalla
“Tempesta” di Shakespeare, usata come canovaccio base su cui
innestare storie e immagini poetiche, vissuti, esperienze, stati d'
animo che lo scritto ispira.
Man
mano che i componimenti letterari dei partecipanti al
laboratorio, integrato da attori del TAM , anche loro chiamati a tale
elaborazione, ha avuto vita e forma, ha preso il posto di parte dello
scritto di Shakespeare.
Questo
ha permesso di creare un armonico linguaggio teatrale che coniuga il
testo del grande drammaturgo con quello del gruppo, dando vita ad uno
spettacolo che risulta una ri-lettura della “Tempesta”. Il
processo di realizzazione degli scritti è stato lungo e
complesso. Parlare in prima persona di sé non è mai
facile, ma è stato bello
vedere i componenti del gruppo dapprima titubanti, avvicinarsi alla
possibilità espressiva legata alla scrittura. Per qualcuno di
loro non è stato possibile acquisire la capacità della
scrittura poetica, che ha fatto parte degli elementi di laboratorio.
Come sempre però, il loro impegno si è espresso ai
massimi livelli ed ha prodotto comunque degli scritti di alto valore
umano, la cui qualità sarà evidente nel momento in cui
leggerete questa pubblicazione. In questi scritti troverete
riflessioni, racconti di un'esperienza, emozioni, visioni della vita,
a volte anche drammatiche, che ognuno di loro ha raccontato secondo
le sue capacità e il suo stile. L'attuazione di questo
progetto ha permesso ad alcuni di loro di entrare più in
contatto con il proprio mondo interiore e creativo.
Con riconoscenza parlo di Maria
Eugenia Fiammetta Pesce, dottoressa responsabile del Centro
Diurno Di Via Ventura con la quale mi sono trovato sempre in sintonia
umana, professionale, intellettuale ed ho condiviso immagini,
idee, progetti. Ho sempre apprezzato ed ammirato la sua dedizione, il
suo entusiasmo, il suo mettersi in gioco in prima persona, che non
ha mai fatto mancare il suo appoggio e la sua presenza al gruppo . E'
stata sempre un grande punto di riferimento. Grazie anche alla sua
cultura e modernità di pensiero, è stato possibile
portare avanti progetti che hanno prodotto dei risultati di qualità
umana ed artistica rilevante.
Abbiamo visto ancora una volta
fiori che sbocciano aprendo le corolle.
E riempiono l'anima di poesia.
Massimo Ranieri
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Contirbuto letterario alla pubblicazione del libro IL PUBBLICO DEL TEATRO SOCIALE edito dalla FrancoAngeli
La Pubblicazione è curata da Ivana Conte
Dal Living Theatre ai Doni di
Talia:
teatro
di ricerca e comunità, teatro sociale e pubblico: variabili
Il
teatro di ricerca e la comunità di attori/spettatori
1978,
Roma, interno del Teatro Alberichino.
Un
uomo sale su una pedana che poggia su una struttura in tubi
innocenti, ad una altezza di circa quattro metri. Sotto di lui si
forma una doppia fila di circa 15 persone per ogni fila, le braccia
di ognuno sono protese in avanti, con le palme delle mani rivolte
verso l'alto, ad intersecarsi con quelle della persona che ha davanti
a sé ma senza afferrare le braccia dell'altro.
L'uomo,
con l'accento simpaticamente americano, che strascica le vocali
finali delle parole, scivola marcatamente la R, e
accentua la T, dice :Tu può volareii! No con
fantasia, ma realmenteii!! Se tu credeii veramenteii questo, Tu
può!!!
Quindi,
come se recitasse una formula magica, Julian Beck del Living Theatre
emettendo tre profondi respiri canta, insieme al tutto il gruppo.
Respirarei!!!, Respirareii!!! VOLAREIII!!!!.
Apre
le braccia - che a me sembrano un dispiegarsi di ali - e si lancia
nel vuoto, un volo perfetto che punta verso l'alto, mentre le ali
si uniscono, nella parte terminale del volo.
Il
suo corpo, seguendo una parabola perfetta, viene accolto dalle due
file di braccia.
Fui
sorpreso nel constatare quanto dolce poteva essere l'atterraggio e
quanto leggero fu l'impatto con le mie braccia nell'accogliere quel
corpo. Il gruppo accoglie l'uomo che ora ha gli occhi chiusi, lo
culla con un movimento ritmico in avanti e indietro poi lo adagia sul
pavimento, con delicatezza lo carezza, lo abbraccia, si prende cura
di lui, fino a quando apre gli occhi.
Si
poteva fare! Si volava! Non ci avevo mai pensato, d'altra parte i
tuffatori lo fanno, gli acrobati lo fanno, i ginnasti lo fanno.
Ma
quello che si faceva allora era fuori da ogni contesto sportivo o
professionistico.
Ci
si doveva fidare di se stessi, affidarsi a qualcun altro che si
conosceva da troppo poco tempo.
La
sensazione che ho quando salgo anch'io sull'impalcatura è di
stupore, paura, esaltazione, ma una volta accolto dalle braccia del
gruppo, soprattutto gratificazione, nel sentirsi accudito, stimolato,
incoraggiato a volersi bene da un gruppo, un contesto che facendo
della responsabilità verso gli altri un valore assoluto, in
quel caso senza mediazioni, mi sta trasmettendo il germe di qualcosa
che avrei percepito più tardi nel corso della mia ricerca.
Era
quello, un contesto dove ebbi la possibilità per la prima
volta di venire a contatto con quelli che erano considerati i
capostipiti di una scuola di teatro che aveva scardinato le barriere
tra pubblico e spettatore.
La
didattica teatrale si basava sul condividere un'esperienza che era
personale ma anche collettiva dove il contatto corporeo
l'accudimento
reciproco era uno dei fondamenti del lavoro.
Con
Julian Beck partecipo poi a tre performances all'aperto in tre
differenti luoghi di
Roma
(sul sagrato di una chiesa contro la repressione sessuale, a piazza
Campo de Fiori sotto la statua di Giordano Bruno contro la
repressione del potere, a Piazza Farnese contro la guerra ) durante
le quali il pubblico viene coinvolto a prendere parte ad una azione
che prevede di mettere in atto il volo. Naturalmente la
posizione di partenza è più bassa, ma si realizza lo
stesso tipo di accadimento
per chi accetta di lanciarsi tra le braccia del gruppo.
La
quarta performance è al teatro Argentina durante uno
spettacolo che racconta della presa del Palazzo d' Inverno durante la
rivoluzione Russa. Julian invita parte degli spettatori a formare
squadre che rappresentano le truppe dello Zar e i Rivoluzionari e
crea così un movimento che amalgama l'azione scenica al
pubblico.
L'attore
si prepara a divenire mediatore
ll
lavoro con Stanislaw Scierski Stasceck ha inizio al tramonto
per finire all'alba, si svolge per la prima parte all'interno della
sala di lavoro (circa quattro ore di training); sembra che dopo la
prima mezz'ora, non sia più possibile continuare a causa
dell'intensità richiesta, ma affiorano energie insospettate.
In
ognuno di noi, la stanchezza aiuta a sbloccare i movimenti perché
entrano in gioco energie sempre nuove e il corpo non viene più
controllato mentalmente, la parte emozionale del nostro essere prende
il posto di quella razionale .
Non
è un lavoro di training classico, in quel momento il gruppo di
Wroclaw abbandona l'aspetto ortodosso del lavoro.
Il
corpo è impegnato in un in movimento senza soluzione di
continuità. Si evolve tra ritmi di potente intensità ed
altri meno intensi, nei quali l'interazione è alla base del
lavoro, e si creano invenzioni nelle quali viene raggiunta a
liberazione del corpo dalle leggi estetiche tradizionali. Impariamo a
danzare con le nostre ombre ( ottenute posizionando un faro in fondo
alla sala), le sagome rimpiccioliscono o si ingrandiscono quando ci
si avvicina o ci si allontana dalla fonte di luce. Prendiamo a
danzare con la nostra silouette , un sé che sembra avere
una vita propria.
La
seconda fase del lavoro si svolge fuori, nella campagna circostante
il centro di ricerca Arcoiris, ora affollatissima zona della
periferia di Roma (Casalotti), ma all'epoca aperta campagna.
Una
notte mi allontano da solo dalla sala di lavoro con una lampada a
petrolio e la mia armonica a bocca. I campi sono stati arati durante
la giornata e su tutta la campagna e il bosco che si trova ai margini
di essa, grava una nebbia abbastanza fitta, alta. Mi inoltro in
aperta campagna e lascio la lampada a terra, poi senza un motivo
logico inizio una azione di allontanamento dalla fonte di luce che
gradualmente diventa sempre più fioca, fino a scomparire del
tutto. Perdo ogni punto di riferimento vivendo sensazioni di paura,
abbandono, solitudine.
La
nebbia fa apparire le fronde degli alberi (mosse da un vento non
troppo forte) immagini che io traduco come paurose, terrificanti: i
miei fantasmi. Ma non mi muovo in direzione della luce che comunque
non è più percepibile, vado verso le ombre come ad
esorcizzare la paura, arrivo direttamente nel bosco, con il cuore che
batte forte.
La
sensazione di solitudine cresce, diventa insostenibile.
Trovo
una radura, mi sdraio supino sul terreno fumante, ho gli occhi
rivolti verso il cielo, appaiono le stelle. Comincio a respirare
l'odore della terra, ad essere accudito dal suo calore, come da un
caldo abbraccio materno, avverto che il mio stato d'animo sta
cambiando. Sento salire l'energia della terra che si fonde con quella
delle stelle e comincio a danzare, libero, tra la terra, il cielo e
le stelle e danzo, danzo, come mai avevo fatto prima.
La
paura scompare e un benessere, una gioia, una felicità mai
provati si insinuano nella mia anima. Nella danza riappare la luce
fioca del lume a petrolio, mi dirigo verso di essa, consapevole di
vivere un'esperienza di una ricchezza indescrivibile. Torno all'alba
verso la sala di lavoro, la lanterna non si è ancora spenta e
l'armonica suona ancora
Prima
di dare inizio ad una nuova notte di lavoro ci si riunisce per
parlare delle nostre esperienze e io racconto la mia.
Stasceck
non usa una sintassi tradizionale, comunica per immagini poetiche, le
sue parole sono evocatrici di emozioni, sono pura poesia adattata al
linguaggio comune.
Dice
che è proprio per quello che noi siamo li, la terra e il cielo
sono parte di noi.
Ma,
profondamente, nessuno di noi sa perché siamo lì.
La
solitudine apre l'incontro verso gli altri.
Il
tempo facile non è quello passato insieme, ma al contrario.
Non
possiamo chiedere a chi viene dal deserto.
Questo
non cambierà la nostra vita.
Qualcuno
di noi lamenta di non riuscire a sentire gli altri dicendo che
il gruppo non c'è.
Non
ci si può condannare ad essere un gruppo perché non
saremo un gruppo.
Se
creiamo un gruppo a difesa del mondo creiamo un ospedale.
Una
sera accendiamo un fuoco e formiamo un cerchio intorno ad esso poi
Stacseck comincia un movimento impercettibile di dondolamento dalla
posizione seduta.
Tutti
facciamo la stessa cosa, il movimento, lentamente, si accentua,
diviene un movimento nello spazio. Ci allontaniamo dal fuoco
dirigendoci verso la boscaglia, ci perdiamo di vista. Un canto libero
ha inizio, le voci si alternano, siamo in contatto solo con la voce.
Ha luogo un dialogo armonico di anime che va avanti per tutta la
notte.
Il
laboratorio si conclude con un'azione personale che solo allora è
condivisa da tutti i partecipanti.
Prendono
vita incontri che, attraverso percorsi tra fuochi, suoni, parole,
danze e canti, attivano un donare ed un ricevere.
Un
momento magico durante il quale viviamo l'offerta, l'accettazione,
la condivisione.
Il
gruppo tanto cercato ora è nato.
Ancora
una volta accudiamo noi stessi e gli altri.
Poi
uno ad uno andiamo a colloquio con lui.
Non
per un lavoro di valutazione ma per un commiato da quella esperienza.
C'è
la luna - mi parla della luna che si rispecchia nel mare (la mère,
in francese, - mi dice - vuole dire mare e madre). Continua
- mi dice Stasceck .
Ci
ritroviamo poi a Wroclaw (Polonia) nel gennaio seguente, fuori ci
sono 25 gradi sotto zero.
L'appuntamento
è in relazione al progetto di parateatro
L'albero delle genti, un incontro internazionale al quale
prendono parte circa 50 persone (dovevano essere di più, ma le
condizioni meteorologiche di quell'inverno impediscono a molti di
raggiungere la destinazione).
I
cerimoniali d'accoglienza si protraggono fino a notte fonda perché
veniamo chiamati uno alla volta; (io sono uno degli ultimi);
consegnamo i nostri documenti e, soprattutto, i nostri orologi; le
finestre sono oscurate, quindi non si può avere la percezione
del passare del tempo. L'organizzazione del lavoro prevede un
utilizzo della sala da training senza limitazioni di tempo: non
avendo orologi non ci sono orari da rispettare.
Ci
si riposa quando si è stanchi, si mangia quando si ha fame, (è
stata organizzata una cucina self-service al piano terra alla quale
si può accedere a qualsiasi ora) ci si lava alla bisogna, si
dorme quando si ha sonno.
Molto
emozionante è il momento in cui, a piedi nudi, entro nella
sala di lavoro che avevo visto nelle immagini pubblicate sul libro
Per un teatro povero di Grotoswky.
Ci
sono delle persone che agiscono, qualcuno di loro è del gruppo
del Teatr
Laboratorium
di Wroclaw.
Mi
ritrovo ad agirecon una donna, una di loro; il nostro contatto
avviene solo per mezzo delle nostre teste, come se il corpo fosse
formato solo da quelle. Ma c'è tanto in quel contatto: la
nostra anima. Passa un tempo incalcolabile, poi siamo stanchi.
E
la prima volta, dopo trent anni, che scrivo di questa esperienza,
ancora custodita gelosamente dentro di me, come un tesoro nello
scrigno.
Come
tengo ancora in quello scrigno tutte le altre esperienze vissute in
quegli anni: dalla Fondazione del Teatro dell'I.R.A.A. (Istituto di
Ricerche Antropologiche sull'Attore). al T.A.M. (Teatro Arte in
Movimento) da me fondato nel 1991.
Le
mie visioni sono ancora nitide, chiare nell'anima e nel corpo.
E'
da questo scrigno, ora pronto ad aprirsi, che traggo ancora
un'immagine dell'esperienza grotowskyana.
Siamo
nella sala da training; gioco, nel senso letterale del termine, con
Cyncutis (uno dei componenti del gruppo originario del Teatr
Laboratorium); ci togliamo delle piccole cose dai nostri corpi
serrandole con la punta delle dita, l'indice e il pollice, e le
lanciamo sul corpo dell'altro.
Questo
gioco iniziale si trasforma, per evolvere in un'azione di relazione
di intensità altissima; tutti i componenti del gruppo presenti
nella sala si fermano, si siedono ai bordi; al centro dello spazio
ci siamo soltanto noi.
La
nostra azione prende il volo, siamo completamente avvolti,
coinvolti; Cyncutis interagisce con me in un modo così
accudente che non mi accorgo di lavorare con un maestro.
L'azione
si esaurisce, ci fermiamo. Cyncutis senza parlare lascia la sala, io
mi siedo completamente bagnato di sudore, avvolto da un'energia
ancora pulsante, sono frastornato, felice. Solo ora mi rendo conto
fino in fondo di aver interagito con lui.
Cyncutis
rientra nella sala, ha nelle mani due bicchieri colmi di the caldo,
si dirige verso di me, mi sorride, mi offre uno dei bicchieri, gli
sorrido.
Beviamo
il the senza dire una parola. Mi sento amato.
Un
detto Zen dice: Il vero maestro non lascia orme sulla neve.
Ci
incontriamo di nuovo a Milano in occasione delle ultime
rappresentazioni di Apokalypsis
cum figuris
Sulla
soglia del luogo dove si sarebbe svolta la rappresentazione c'è
Stascheck , mi tende la mano, io tendo la mia con l'intenzione di
salutarlo, lui mi stringe la mano e con uno strattone mi tira dentro.
Mi
abbraccia, mi cinge le spalle e parlandomi a bassa voce mi chiede di
fare da cerimoniere per il pubblico. Avrei dovuto accompagnare due
spettatori alla volta a prendere posto nello spazio riservato al
pubblico, posto a semicerchio lungo il perimetro, al centro del quale
si sarebbe svolta l'azione scenica.
Chi
mi aveva accudito mi sta chiedendo di accudire gli altri.
Lo
faccio, con gratitudine e riconoscenza, conscio che quel compito non
l'avrebbero dato a chiunque: mi sentono dunque uno dei loro.
Tutto
si svolge senza parlare con gli spettatori, non ce n'è
bisogno.
L
incontro con la comunità dei diversi
Ho
sempre pensato che, tra le varie forme di espressione artistica,
larte del teatro è quella il cui accadimento è
legato alla presenza fisica, nello stesso spazio e nello stesso
tempo, di due fattori o elementi umani: lAttore e lo Spettatore, i
quali danno vita - nel senso del mettere in atto nel momento
irripetibile del qui ed ora della rappresentazione
drammaturgica ad un racconto-agito,il racconto
dellumano.
E per questo che considero larte teatrale,
arte sociale per eccellenza e arte del raccontarsi.
Un
racconto che può attingere ad opere di drammaturgia, a testi
di teatro popolare, alla teatralizzazione di elementi di cultura
popolare o di avvenimenti storici, a testi di letteratura, sia antica
che moderna, ma anche a testi realizzati dallattore stesso.
Ciò
non vuol dire che lattore debba necessariamente trasformarsi in
drammaturgo, ma nel suo processo di formazione potrà
confrontarsi con la propria capacità d'improvvisazione, sia
corporea che verbale, in altri termini, svilupperà o affinerà
le sue capacità creative.
La
mia esperienza di impegno nel teatro sociale, inizia nel 1978 presso
l'ex Ospedale Psichiatrico di Trieste dove, dopo un laboratorio
durato un mese, al quale presero parte pazienti ed operatori, sia
all'interno dell'ex O.P. che nelle strutture
operanti già da allora sul territorio, si dette vita ad uno
spettacolo teatrale di intervento urbano , dal titolo
Scomposizione e ricomposizione di un quadro di Paul Klee, con
musica dal vivo maschere e scenografia semovente.
Era
la parte iniziale del cammino di un gruppo teatrale (Teatro
dell'I.R.A.A. Istituto di Ricerche Antropologiche sull'Attore), di
cui sono stato tra i fondatori. Ci furono altre esperienze nel campo
della psichiatria ma sporadiche e spesso osteggiate da operatori che
non avevano la cultura e la volontà di mettere in atto un
cambiamento.
Ci
dedicammo, allora, più intensamente ad esperienze di tipo
antropologico, effettuando ricerche sul campo in vari continenti (Sud
America, Australia, India, Nord Africa la stessa Europa e l'Italia
stessa).
La
socialità del teatro durante queste esperienze mi è
parsa sempre più chiara.
In
quei contesti non c'era un teatro presso il quale effettuare gli
spettacoli, non si costruivano luoghi canonici del teatro, ma
la natura, spesso, era il luogo deputato, dove il rituale di
benvenuto, la danza descrittiva di un atto quotidiano (quale la
raccolta delle larve o delle bacche, la caccia, il movimento
scaturito dall'atto di raccogliere un frutto) erano la base di un
vissuto sociale, attraverso il quale la comunità intera
partecipava alla realizzazione di una danza, una rappresentazione, un
racconto, un atto poetico.
Questa
ricerca è continuata anche dopo aver lasciato il Teatro
Dell'I.R.A.A. e fondato il T.A.M. (Teatro Arte in Movimento).
Dal
1991 ad oggi il mio lavoro di attore, regista e conduttore di
laboratori si è realizzato in forme e luoghi molteplici.
Il
cuore della ricerca è stato costantemente il Centro Culturale
Ditirambo di Roma, allinterno del quale si è formato un
gruppo di attori disabili che segue i laboratori integrati del TAM da
ben 18 anni.
Posso
sicuramente affermare che ognuna di queste tante esperienze ha creato
un gruppo a sé stante ed una comunità teatrale
che non ha mai avuto (neanche come teatro dellI.R.A.A. o T.A.M.)
la spasmodica ricerca della messa in scena a tutti i costi.
Lo
spettacolo è sempre stato un momento del percorso formativo
conoscitivo indirizzato soprattutto al gruppo che lo componeva, che
fosse composto da persone disagiate, con diverse abilità
oppure cosiddetti normo-dotati.
La
fusione che ho cercato di mettere in atto nei lavori tra persone che
frequentano i corsi T.A.M. e le persone seguite dai centri diurni
riabilitativi anche in situazione di handicap gravi, ha spero
contribuito a creare una cultura di gruppo unica nel suo genere,
fatta di quel dare e ricevere, chiedere e donare che è uno dei
fondamenti anche del training, portatrice di un linguaggio nuovo,
moderno, stimolatore di una nuova poesia corporeo - verbale, basata
sull uso della molteplicità dei diversi codici espressivi,
a volte giocati dallo stesso attore.
Ma,
a mio giudizio, il pubblico non è ancora pronto ad accettare
un linguaggio così nuovo che sradica emozioni con forza
sorprendente, e richiede unespandersi dellanima da parte di chi
guarda, un lasciarsi andare come ad una musica che in fondo non può
avere un titolo perché è legata alla libera
immaginazione e allemozione di chi lascolta
Purtroppo
si sta creando un teatro di genere, cercando di relegare questo
linguaggio in festival di teatro e handicap, che a volte si
organizzano su di un piano squisitamente politico, dove addirittura
vengono messi in palio dei premi.
Penso
che sia ancora lontano il tempo nel quale le persone in situazione di
disagio vengano considerate veri artisti.
N.
B. Questo scritto non vuole né può essere esaustivo di
tutta lattività svolta dallautore nei contesti di cui
si narra; sono stati estrapolati quegli elementi del lavoro che danno
vita ad immagini e riflessioni in relazione alla tematica sul teatro
sociale (dallesperienza
diretta alla costruzione del teatro di comunità).
Massimo
Ranieri