T.A.M.
Teatro-Arte in Movimento
 
Progetto di autodrammaturgia "La nostra Tempesta"
Contributo letterario alla pubblicazione del libro
I DONI DI TALIA, Le maschere, La speranza
Edito da Odradek
Introduzione e promozione editoriale Dott.ssa Maria Eugenia Pesce

Non c'e teatro senza attore non c'e attore senza spettator
e.

Se dovessi agire, creare, inventare,
pensare,
parlare, comunicare, ascoltare, sentire,
toccare, immaginare.
Se dovessi richiamare i miei sensi
a poggiarsi su un piccolo spazio di cielo interiore
e cercare,
trovare armonie, assonanze, canti, parole, silenzi, ritmi, suoni, colori, forme.
Quando il grido si fa canto
e la luce riflette ombre nascoste
e il pulsare dell’anima accompagna il ritmo del cuore.
Allora sono un attore

Questa è la mia maniera di sentirmi attore ed è un modo per comunicare ai “miei attori e attrici”, ai miei amici e amiche, al “mio”gruppo di teatro, uno stato d'animo, un ringraziamento, una sensazione, un sogno. Spesso Shakespeare nei suoi scritti, usa la metafora del sogno per descrivere due aspetti della vita, il lato sognante, l'immaginario, il creativo, e la realtà quotidiana.

Il teatro è anche il luogo dove questi due aspetti possono co-esistere.

I “miei attori e attrici” li chiamo così perché sò che per loro io sono il regista il loro “maestro” ma anche loro per me sono i “miei maestri” di vita.

Sono tanti gli anni che ci conosciamo, per voi che ancora siete con me sono forse quattro?.... o sono forse otto?.....no, dieci anni!... quindici....,diciassette!!!! una parte di vita trascorsa insieme.

Parlerò di loro e di me, del percorso intrapreso insieme, e che ancora prosegue, con “commozione”, anche nel senso di “muoversi insieme” perché anch'io ho sempre pensato che (è qui che il teatro raggiunge lo scopo sociale più alto: nell'unione e nella condivisione di una realtà che ci appartiene profondamente... (A. Fantechi).

Mi viene naturale cominciare a parlare della mia esperienza, partendo da quello che ho ricevuto da essa, perché di quello che ho dato come regista e come artista, se ne ha la percezione dal prodotto artistico che questa esperienza comune ha generato.

Ma si sa che un lavoro teatrale è sempre un lavoro fatto insieme e l'apporto alla sua qualità non può essere che collettivo.

E' stato quel “muoversi insieme”, in cui il Centro Diurno di Via Ventura DSM RME Modulo 19, ha avuto un ruolo fondamentale e che mi ha dato la possibilità di crescere a livello esistenziale ed artistico. Quel “muoversi insieme” che ha reso possibile operare la “quadratura del cerchio” della mia ricerca teatrale, con l'applicazione delle tecniche di lavoro sull'attore nel campo sociale. E' stato quel “muoversi insieme” che ha fatto scaturire in me l'immagine poetica deLa costante variabile”, che è un' idea generata dalla necessità di elaborare una minuziosa scomposizione degli elementi di lavoro, affinché vengano compresi ed assimilati, sia a livello intellettuale che corporeo, nei contesti sociali più disparati. Ogni elemento del lavoro sull'attore, poteva essere inteso come una “costante” che aveva la sua variante. Il lavoro sul corpo dell'attore, inteso come costante, ha la sua variante nelle innumerevoli scomposizioni che degli esercizi si possono operare, ponendo l'attenzione alle singole parti del corpo, es: in quanti modi si può muovere una mano? Il lavoro sul movimento inteso come costante, ha la sua variante nelle innumerevoli modalità di posizionarsi nello spazio, ma anche nelle infinite scomposizioni che del ritmo di un singolo movimento si possono elaborare. Il canto inteso come costante, ha sua variante nell'espressività, la ritmica, la tonalità, il timbro, ma anche la necessaria scomposizione di ogni esercizio vocale necessario all'acquisizione di una possibilità espressiva canora, ecc.........( lo sviluppo di questa idea sarà parte integrante di un mio libro di prossima pubblicazione). Questa nuova angolazione, questo nuovo punto di osservazione, ha contribuito a rendere a me stesso più chiari, gli elementi della mia ricerca, arricchendo in modo straordinario la mia esperienza. Ma ho già parlato troppo di me, vorrei tornare ai miei amici ed amiche, compagni di percorso. Quante volte ho pensato che questi attori anche se non professionisti avevano dei comportamenti professionali che nulla avevano da invidiare a “certi “professionisti. Quante volte ho visto superare ostacoli e frustrazioni e ripartire dopo aver subito un contraccolpo. Delle volte quando l'andare in scena in relazione ad una data che non poteva essere cambiata, richiedeva uno sforzo ulteriore, loro l'hanno fatto. Quante volte tutto questo vissuto è stato di sprone, di esempio, quante volte ripensando alla loro tenacia, ho preso lo spunto, per superare i miei momenti di fragilità. Sempre, la mia fatica è stata ripagata dalla loro dedizione, dalla qualità del prodotto artistico, dal calore delle loro anime, perché abbiamo faticato insieme, come insieme ci siamo commossi, ed insieme abbiamo raggiunto dei risultati di inusitata bellezza. A volte mi è capitato di pensare che avevo chiesto troppo, che mi ero imbarcato in un'avventura troppo grande, ma loro, sorprendentemente, capaci di colpi di reni di inusitata potenza, sono riusciti ad andare in scena insieme a me, a Giuseppe (di cui parlerò in seguito) agli attori del T.A.M. (Teatro Arte in Movimento, di cui sono il direttore), e a tutti i volontari, alle persone del servizio civile, agli operatori del Centro Diurno. Spesso mi sono commosso nell'apprezzare la qualità del loro linguaggio artistico, un linguaggio nuovo, al quale il grande pubblico ancora deve abituarsi, grazie alla poesia della loro presenza scenica, che si traduce in una grande qualità espressiva. Questo gruppo, è stato in grado di seguirmi con entusiasmo nel percorso di formazione sull'arte dell'attore ed apprendere tutti quegli elementi che sono alla base e che portano allo sviluppo della mia didattica teatrale, impegnativa per la complessità degli elementi che la compongono. La loro dedizione, la loro tenacia gli ha permesso per mezzo di un assiduo lavoro, di raggiungere l'obbiettivo che io mi prefiggo per ogni attore e che ne completano la figura: l'interpretazione del testo, il canto, la danza.

L'opera da tre soldi” e “Rugantino”, che prevedono l'applicazione di tutti questi linguaggi espressivi, hanno dato inizio ad una fase importante dell'esperienza teatrale; difatti le due opere sono state rappresentate come “recitals” o sotto forma di spettacolo, in luoghi diversi da quelli a loro abituali e protetti, partecipando a festival e manifestazioni teatrali anche Internazionali. Ma è stata l'esperienza della tournée di “Rugantino” svolta anche in condizioni ambientali a volte difficili, come può capitare a qualsiasi attore in tournée, che “I Teatranti Della Ventura”, come amano chiamarsi ed essere chiamati, ha consolidato quell' amalgama preziosa che si esprime per mezzo della qualità delle relazioni e del mutuo aiuto, che definisce un' identità, un esserci, un “darsi voce”.
Vorrei pensare a questo scritto come ad una lettera aperta che racconti di costellazioni di sogni, di emozioni, di sentimenti; un mondo parallelo a quello quotidiano che riempie la vita di un sorriso, un pianto, un battito di mani e una lacrima, un abbraccio, un “forza ce la farai”, un fiore portato da una bimba in palcoscenico a dire......bravi, ci è piaciuto.

Quante volte il gruppo ha detto quel “forza ce la farai”! Sento che lo scrivere mi conduce verso un piano emozionale, dove i ritmi delle immagini a volte si susseguono senza rispettare un'ordine specifico, ma seguono l'onda del cuore dove l'anima a volte passando tra lentezze e accelerazioni si tende e si distende in vissuti atti a raccontarci.

Stefano,

la dolcezza e la tenerezza del tuo essere,........ .ricordi “Il cerchio fatato”, lo spettacolo nato dal progetto F.A.T.A.? (Fuoco Aria Terra Acqua; la prima volta che applicavo quelle tecniche che chiamo di auto-drammaturgia in un contesto di teatro sociale ) L'Aria ti ricordava Tarzan che volava da un ramo all'altro.....incontrava una ragazza che gli faceva una sciarpa e poi, tenendosi per mano se ne andavano via?....e tu suonavi la chitarra come nella prima versione de “L'opera da tre soldi” nella quale entravi in scena leggendo il copione? Passo dopo passo sei riuscito a superare questa tua difficoltà ed ora anche con il piccolo aiuto del suggeritore, quando serve, basta la prima parola e la battuta fluisce tutta, anche lunga. Ma chi è quell'attore di teatro che non ha bisogno di un suggeritore? Di te ricordo la poetica gestualità di Teseo nel “Sogno di una notte di mezz'estate” ricavata dalle arti marziali, che tu ami, la simpatia che generavi nel pubblico con l'interpretazione di uno dei componenti della “Gang” di Mackie Messer nella seconda versione de “L'opera da tre soldi”, nella quale hai anche cantato come parte del coro di scena, la bellissima caratterizzazione dello scultore Torwaldsen e l'appassionata interpretazione di “Ciumachella de trestevere” come parte di un quartetto canoro dei “Serenanti” in “Rugantino” . Di te ricordo la bravura con la chitarra, quel tocco di magia che ha riempito di poesia il palcoscenico ed ha trovato l'entusiasmo del pubblico.

Beatrice,

dal carattere a volte veemente, ma dolcissimo, sempre positivo, entusiasta di natura, sempre pronta a spronare gli altri, sei attrice capace di un'impronta interpretativa personalissima e che sorprende per la naturalezza che riesci a dare ai personaggi che interpreti.

Hai acquisito una tale padronanza del palcoscenico che ami e sul quale ti piace tantissimo stare, che a volte rendendoti conto che puoi avere un'esitazione di memoria con gesti accorti, che il pubblico non vede, ti metti in contatto con il suggeritore e lo esorti, con un atteggiamento da attrice esperta nell'arte del palcoscenico a “porgerti” la battuta. Ti ricordo correre mentre avvolgevi con un sarji indiano il tuo compagno di scena, sospinta da un coro Gospel e un brano tratto da “Il piccolo principe” nello spettacolo “Il cerchio fatato”, era un' azione di grande energia. Ricordo il gesto delle due dita poste, a sorpresa, in segno di vittoria, verso il pubblico nel momento in cui l'obbiettivo di sposare Laurie era stato raggiunto. Lo spettacolo era una rilettura comica di “Piccole donne”, dove tu interpretavi appunto il personaggio di Amy. Grazie alla tua qualità interpretativa, sei passata con grande facilità da personaggi romantici come quello della ragazza che riceveva una dichiarazione ne “La domanda di matrimonio” di “Checov “che a te piaceva tanto, alla regalità di Titania la regina delle fate che hai interpretato con entusiasmo perché a te questi ruoli piacciono particolarmente. La tua interpretazione comica nel personaggio della moglie del ladro in “Non tutti i ladri vengono per nuocere” era così spumeggiante che quando ho rivisto per la prima volta lo spettacolo in video, ho riso tanto, grato per avermi dato un momento di autentica spensieratezza. La impegnativa prova nel ruolo della moglie di Peachum, la madre di Polly, ne “L'opera da tre soldi”, ti ha chiamato ad un ruolo drammatico al quale tu hai saputo aggiungere un aspetto di grande umanità. In quello spettacolo hai cominciato anche a cantare e a ballare. Le tue grandi capacità di attrice, ti hanno dato modo di impersonare in “Rugantino”, lo spettacolo che ti è piaciuto di più, i personaggi di “Donna Marta” una nobile romana e della “Signora dei gatti”in una versione simpaticissima. Anche in questo spettacolo hai ballato e cantato, felice di farlo. Come non pensare alla tua la tua “verve” comica, sempre pronta ad elargire battute anche in situazioni “semplicemente” sociali. Il tuo entusiasmo la tua voglia, il modo di stare in scena, il pubblico l' ha sempre sentito ed apprezzato, applaudendo, tantissimo.

Emanuele Cau,

pacato, riflessivo, ma ti accendi in momenti di energia inusitata che bene esprimi nelle azioni coreografiche, i tuoi interventi nelle riunioni di gruppo che seguono ad ogni spettacolo, o ad una discussione che impegna il gruppo, sono sempre sagge. A volte ti apparti a fumare, a riflettere, amante della buona musica che sempre porti con te e che ascolti durante il giorno con le cuffie e il lettore C.D. portatile. Padrone del tuo tempo e del tuo ritmo affronti un viaggio di ritorno di un'ora e mezza per tornare a casa. Hai scritto un lavoro drammaturgico, autobiografico, che sono stato ben felice di mettere in scena perché questo è uno degli intenti del laboratorio. Una storia creata da te ed in parte elaborata insieme per quanto riguarda la struttura della sceneggiatura, interpretata da te nella parte del protagonista e dai compagni e compagne di laboratorio, nelle parti degli altri personaggi. “Il vagabondo”, era il titolo della tua opera, nella quale raccontavi di un personaggio che attraversava un periodo della propria esistenza difficile ma che poi per mezzo dell'amore trovava la forza di andare avanti. Quest' opera era forse lo specchio del periodo che stavi attraversando, non facile per te. Quell' anno il gruppo trovava una certa difficoltà a gestire le sue dinamiche, era un pò dispersivo, allora, mi dicesti che nonostante tutto il laboratorio di teatro era il luogo nel quale riuscivi a star bene a lasciare indietro le tue preoccupazioni, anzi era la sola cosa che ti faceva stare bene. Questo tuo vissuto, ha avuto un ruolo positivo, perché alla fine sei stato in grado di andare in scena, valorizzando il tuo lavoro e te stesso. Li per lì non sembravi soddisfatto del risultato ottenuto, avevi come un senso di insoddisfazione, una sorta di distacco emozionale che ti procurava qualche fastidio. Mi ricordo che ne parlammo e ti dissi che delle volte capita anche a me avvertire un certo distacco dalle cose creative che faccio, come se il cuore dovesse abituarsi a convivere con la cosa appena creata. In un secondo momento sono stato contento di sapere da te che se dovessi proporla di nuovo lo faresti volentieri. Ti ringrazio della riconoscenza che mi hai dimostrato, ma grazie soprattutto per aver creduto nel laboratorio di teatro. Ricordo ancora come ti divertivi nel fare la parte del nonno-vampiro in “Piccole donne” o uno dei mariti coinvolti in “Non tutti i ladri vengono per nuocere”. Ricordo la dolcezza che la tua interpretazione ha dato al personaggio di Rocchetto in “Sogno di una notte di mezz'estate”, di come hai affrontato la durezza di “Peachum” nell'opera da tre soldi, dove insieme al tuo entusiasmo per il ballo, c'era l'impegno di affrontare un personaggio completamente diverso dalla tua natura, ma che hai saputo rendere nella giusta maniera. In fondo il teatro è anche a questo che ci chiama: assumere la responsabilità di mettere in luce anche gli aspetti negativi dell'essere umano. Ma ricordo ancora la splendida interpretazione di Mastro Titta in “Rugantino”, un personaggio che al di là del lavoro che faceva aveva una umanità che hai saputo rendere nella sua dimensione più poetica, soprattutto quando hai cantato pieno d'espressività e con un' intonazione perfetta, “E' bello avè na donna dentro casa”, come altrettanto perfetta era la tua intonazione nel quartetto canoro dei “Serenanti”che cantavano “Ciumachella de trestevere”. E' per questo che il pubblico ti applaude.

Fabio,

preciso nei rituali di preparazione, in camerino, prima dello spettacolo, ti ricordo proporre entusiasta, aspetti caratteristici del personaggio del turista ne “Il vagabondo”, la tua prima interpretazione nel gruppo di teatro. Ricordo la tua passione nell'interpretare il ruolo di Oberon nel “Sogno di una notte di mezz' estate” con quel tocco di ironica comicità che proponesti nel fare indossare ad Oberon, in un momento dello spettacolo, un casco da motociclista. Una invenzione che il pubblico apprezzò tantissimo, ricordo la impegnativa interpretazione di Brown, il capo della polizia, personaggio non facile da interpretare, ma che hai “inquadrato” nella giusta maniera. Il tuo canto intonato che ha avuto un' inizio promettente nei cori de “L'opera da tre soldi” ha trovato spazio in “Rugantino” nel simpatico duetto con Rosetta nella canzone “Anvedi si che paciocca”, nel quartetto dei “Serenanti” in “Ciumachella de trestevere”, ma soprattutto si è espresso in tutta l'ampiezza delle possibilità espressive che sono nelle tue “corde” nella canzone “Tirollallero”, l'interpretazione, romantica, appassionata, di una canzone che faceva riflettere sui temi dell'amore. La tua “poliedricità” interpretativa ti ha dato modo, sempre in “Rugantino” di indossare anche i panni di personaggi come Don Niccolò Paritelli, un nobile romano e il Cardinale Severini una figura di prelato interpretata conferendo al personaggio, oltre che la vena comica, anche una certa “ieraticità”. Il pubblico ha sempre apprezzato l'eleganza che trasmettevi ai personaggi che hai interpretato. Quella eleganza che caratterizzava i tuoi interventi, quando in occasione di qualche replica in situazioni importanti hai chiesto di parlare, hai sempre dimostrato un animo attento e cortese.

A volte sei venuto al laboratorio preoccupato, assorto altre volte ci hai comunicato le tue preoccupazioni che riguardavano vari aspetti della tua vita e il dialogo con il gruppo ti ha aiutato, come tu dicevi, ad elaborare le tue inquietudini. Io vorrei dirti però come conduttore dei laboratori che, comunque alla fine ci sei riuscito, hai portato in scena lavori anche complessi, hai superato momenti difficili, hai calibrato il tuo carattere a volte irruento e l'hai reso semplicemente spumeggiante. In alcuni casi mi è parso di vederti entrare in percorsi che sembravano senza uscita, ma sei riuscito a cambiarli, hai trovato l'uscita.

Massimo,

gentile nell'animo, sognante, amante del tennis e della pittura , ti diletti a disegnare con la matita le immagini di quadri appesi nel corridoio all'interno del Centro Culturale Ditirambo, Sede del T.A.M. dove vengono tenuti i laboratori di teatro, continuando in un certo senso la tua attività di pittura che pratichi all'interno del Centro Diurno. Mi ricordo della tua difficoltà iniziale a impersonare il ruolo di Tassello, il carpentiere, che interpretava la parte del “Leone” nella recita che gli artigiani rappresentarono presso la regia di Teseo e Ippolita, il giorno delle loro nozze. Quella volta sei riuscito con la sorpresa di tutti, a vincere la tua timidezza e la voce del leone si materializzò con la potenza giusta, degna del leone che ruggisce. Ne “L'opera da tre soldi” il tuo personaggio il “Reverendo Kimbal” non era facile, ma sei comunque riuscito ad andare in scena e ad infondere al personaggio la tua simpatia. La tua voce fu chiara e potente nel personaggio del “Il Brigadiere” in “Rugantino” e la tua commozione era visibile sul tuo viso, specchio di una sensibilità non comune quando ai fatto parte del coro dei Serenanti nella canzone “Ciumachella de trestevere”. Il tuo impegno è stato così grande che hai trovato la capacità di trasformare la tua commozione in ironia per interpretare il ruolo dell' “Innammorato”. Ancora più grande fu la sorpresa di tutti, quando nei panni dello stesso personaggio, fosti in grado di mostrare la giusta aggressività scenica che era necessaria nel duello rusticano che ingaggiasti con “Gnecco” interpretato da Giuseppe, che insieme a me ti ha esortato a non aver paura di una finzione scenica. E' stato difficile per il tuo animo sensibile, messo a dura prova, ma ce l'hai fatta, perchè come dicevo il teatro ci porta ad interpretare ruoli talvolta ostici. Sono sicuro che queste esperienze servono ad elaborare dei vissuti, delle volte a superare delle paure o ad avvicinarsi ad esse. Mi ha commosso molto ed è rimasta nella mia mente,chiara, precisa, netta, drammatica, commovente, la tua interpretazione della canzone del detenuto “A tocchi a tocchi na campana sona”. Era bello vederti danzare felice, sulle note di quel canto d'amore che è “Roma non fa la stupida stasera”. E' per quello che sei, è per quanto riesci a commuovere che il pubblico ti applaude.

Novella, Vilma,

Premetto che queste due lettere per voi un po' più lunghe perché parlare di voi fa parte di quel periodo in cui la vostra presenza ha segnato un momento di passaggio importante nella storia del gruppo e quindi userò l'occasione, per parlare anche della vita del gruppo tutto.

Vilma

Un' attrice si muove sulla scena, sta dando vita ad un' azione espressiva, il risultato del fissaggio di una improvvisazione elaborata durante il laboratorio di espressività corporea. L'attrice prende tra le mani un pantacollant colorato, lo manipola e con un gesto deciso infila la sua testa dalla parte della vita, coprendosi viso, come un cappuccio dentro il quale la sua testa a il suo volto scompaiono, poi lo usa come un copricapo ed infine usando la parte delle gambe a mò di sciarpa conclude l'azione.

L'immagine è affascinante perché rimanda allo spettatore una percezione singolare, uno spostamento di lettura dell'immagine scenica di un volto, una testa e un corpo che si trasformano.

Una allieva accetta di eseguire un esercizio, non era obbligata a farlo, l'esercizio è impegnativo perché bisogna rotolarsi dentro una lunga stoffa indiana e lei soffre di claustrofobia: Lei sceglie di eseguire l'esercizio, arriva una crisi di claustrofobia della quale soffre, ci parliamo, supera la crisi e dalla volta dopo comincia a lavorare sull'azione scenica descritta. Questa sei tu Vilma. Questa è la tua forza, questa è stata la prima prova che hai superato, grazie a te stessa e alle tue capacità.

La tua seconda volta in scena, ancora per mezzo di un processo di auto-drammaturgia, elabori un' azione usando dei rami di eucalipto. L'azione, poetico-espressiva era realizzata per mezzo di tecniche teatrali che si basano sul “ripescaggio” emozionale di esperienze di vita. Ci narravi di te bambina e dell'incontro, felice, con un altro bambino, che ti aveva lasciato un bel ricordo. L'accompagnavi con uno scritto poetico scelto da te che parlava di un futuro positivo e tu eri felice nel ricordare quell'avvenimento. Eri felice di sentire di nuovo il tuo corpo..

Le mie indicazioni di lavoro, che tu con impegno e tenacia seguivi nonostante le perplessità iniziali, andavano verso il tentativo di sciogliere la tua contrazione muscolare.

Applicarti a questo compito ti ha permesso di tornare a percepire il tuo corpo e usarlo come possibilità espressiva. Hai cominciato a muoverti con meno impaccio, più sicura, più tranquilla, pervasa da una grande energia.
Poi venne il “Sogno di una notte di mezz'estate” e tu eri Ippolita, regale, importante, la tua prima interpretazione di un ruolo di attrice che hai portato a termine benissimo, spigliata e sicura, anche se questo non sembrava essere il tuo parere. Era come se non volessi accettare gli elogi, certamente disinteressati, che ti venivano da tutte le parti, me compreso, non completamente convinta delle tue possibilità. Questo fu un grande tema di riflessione svolto anche all'interno del gruppo, e che hai portato avanti per molto tempo, ma della sua evoluzione parleremo più tardi. Fu uno spettacolo con un primo accenno al canto, bellissimo, anche grazie all'apporto di tutti i componenti del laboratorio di teatro. Era l'inizio di una fusione con il gruppo di espressività corporea, che per mezzo di coreografie poetiche invitava alla danza gli altri attori. Fu cosi che si formò un gruppo di attori che si esprimeva anche per mezzo della danza e del canto.
Poi venne “L'opera da tre soldi”, qui tu e le altre componenti del laboratorio di espressività corporea, avete dato vita al balletto di apertura dello spettacolo, sulle note della canzone di Macki Messer cantata da Bin Crosby. Il balletto era stato realizzato per mezzo di simpatici movimenti ironici scelti per la maggior parte da voi, e da me coreografati. Prendevano parte a quella coreografia anche “Dudi” Cingolani, come responsabile psicologa dei laboratori di Espressività Corporea per il Centro Diurno e Annelise Battella, una delle allieve-attrici del T.AM. Tu interpretavi la parte di Jenny, personaggio impegnativo, in un ruolo scabroso, ma pervaso da grande umanità, portatrice di una denuncia verso quella cultura maschile che tende a svilire la figura ed il ruolo della donna nella società . Era la prima volta che il teatro ti chiamava a prenderti la responsabilità di rappresentare anche i lati difficili dell'esistenza. D'altra parte questa era la grande tematica che ha accompagnato tutta la preparazione de “L'opera da tre soldi” di Brecht. Questa esperienza ci ha chiamato entrambi ad una prova impegnativa. Io nel comunicarla tu nell'accettare la mia decisione, difficile, che poteva sembrare dura, ma era una decisione presa per salvaguardare la tua dignità di attrice. Avresti dovuto trasformare l' interpretazione cantata di una canzone, in una interpretazione recitata, perché quel testo non era ancora nelle tue “corde”, nonostante le prove effettuate. Ci furono lacrime per te e una stretta al cuore per me nel momento in cui fu necessario comunicarti questo, perché non è facile per un regista comunicare una cosa del genere e soprattutto se il regista, come nel mio caso è anche conduttore dei laboratori. La tua reazione è stata magnifica. Dopo un primo momento di un tuo comprensibile smarrimento, ci siamo messi in un angolo del teatro e abbiamo elaborato la nuova “veste”del brano. Avverto ancora la presenza discreta dei nostri compagni di lavoro che rispettavano questo momento di difficoltà e che poi non ti hanno fatto mancare il loro appoggio umano, espresso in tanti modi. Tutti hanno trovato il momento per farti sentire il loro calore e dirti : dai che ce la fai, sei bravissima!! L' interpretazione di quel testo fu di una intensità straordinaria, che probabilmente ha valorizzato certi aspetti della denuncia di Jenny, a dimostrazione che sentivi il personaggio. Il pubblico ha applaudito a scena aperta. Anche quella volta hai ricondotto all' interno del gruppo la tematica della tua insoddisfazione, d'altra parte venivi da un'esperienza non facile. Ma hai cominciato ad apprezzare sempre di più il valore dell'apporto del gruppo.     Poi venne la commedia musicale di “Rugantino” e tu ancora una volta non “sentivi” il personaggio che ti avevamo assegnato. Queste figure femminili avevano qualcosa che a te non piaceva, ma Giuseppe mi esortava a pensare che sviluppare questa tematica per te era importante e alla luce dei risultati, non posso dargli torto. Avevi timore che la tua immagine sociale sarebbe stata quella del personaggio che interpretavi e non come l'avresti interpretato, quale anima avresti dato al personaggio. Seguendo questo ragionamento, se un attore interpreta un ladro, un assassino, bisogna considerarlo tale? Era come se il cliché esteriore fosse molto più importante dell'anima. Ma questo è stato uno dei temi più importanti affrontati dal gruppo, da sempre, insieme al ruolo sociale dell'attore. Hai lavorato Vilma, hai lavorato molto anche in questa direzione e lentamente hai cominciato ad amare il personaggio di Eusebia che sì, si arrabattava per vivere, come anche “Rugantino”, tuo compagno di avventure, ma era piena di umanità. Quell' umanità che le ha fatto apprezzare l'amore che “Mastro Titta” aveva per lei e l'ha aiutata a capire quanto fosse importante quel sentimento. La tua interpretazione è stata bella, ariosa, comica, drammatica, specialmente nei monologhi, resi con grande espressività e qualità interpretativa, soprattutto sentita, come sai “sentire” tu i personaggi del “nostro” teatro. Non dimenticherò certo la tua capacità di reazione ai fuochi artificiali che furono fatti sopra le nostre teste durante la rappresentazione in tournée. Sei stata talmente abile nel reagire alla situazione che ne hai ricavato delle battute molto apprezzate dal pubblico.

Novella

La prima immagine che ho di te è quella di una persona che desiderava appartarsi, separarsi dagli altri come se il proprio mondo interiore fosse in conflitto con l'esterno. Te ne stavi da sola, seduta sulle scale, che erano in un'ala del corridoio del Centro Culturale Ditirambo, sede del T.A.M. dove c'era la sala nella quale si tenevano i corsi di espressività corporea e di teatro per conto del Centro Diurno di Via ventura. Ti venni vicino e ti dissi: “Noi siamo lì, nella stanza, vieni quando vuoi”.

Dopo un po', ci raggiungesti. Si capiva dal tuo modo di muoverti che il tuo era un corpo abituato al movimento, aveva una sua cultura. Ora bisognava che questa cultura fosse condivisa, aggiustata ad un contesto diverso, quello espressivo-corporeo. Quello che dissi a te è quello che dico sempre ai danzatori che si iscrivono ai miei laboratori; è necessario, per un periodo “dimenticarsi “ della danza, questo non vuol dire tradirla, ma fare posto ad una possibilità espressiva e di movimento diversa. Quando la danza riapparirà sarà arricchita da una espressività più personalizzata.
L'espressività corporea è quella possibilità che un attore (inteso come colui che agisce), si dà per elaborare un movimento che non faccia riferimento ad uno schema e che gli dia la possibilità di esprimersi attraverso una propria forma poetica. E' un percorso anche sulla gestualità, è apprendere come inventare, un “proprio” movimento, è l'acquisizione di una propria qualità espressiva.
Mi ricordo del tuo timore di agire un'azione in relazione al pavimento, sembrava per te una cosa quasi impensabile, ma ti cimentasi anche con questa possibilità, con successo.

Spesso il tuo modo di porti è stato caratterizzato da un'iniziale titubanza che alle volte è arrivata ad esprimersi con un rifiuto, iniziale, ad accettare nuove proposte di lavoro sia nella danza che nell'interpretazione del testo o nel canto, ma a questo ha fatto riscontro poi un impegno che produceva un risultato di qualità.

Con l'andare del tempo il gruppo di espressività corporea aumentò di numero, progredendo nel suo percorso di formazione. Aveva già portato in scena due dimostrazioni di lavoro spettacolarizzate, e fu naturale per me pensare che quel nucleo sarebbe stato in grado di essere parte integrante del prossimo lavoro che il laboratorio di Teatro stava proponendo il “Sogno di una notte di mezz'estate” di Shakespeare. Ero felicissimo per quello che stava accadendo. La fusione di due possibilità espressive, la danza e il teatro. Gli attori necessari alla costituzione del cast erano tanti, perché tanti erano i protagonisti dello spettacolo e fu naturale che gli stessi allievi del corso di espressività corporea agissero anche come attori. Nello spettacolo il tuo personaggio era “Zeppa” l'artigiano-regista incaricato di preparare gli attori per la recita finale in occasione delle nozze di Teseo, duca di Atene e Ippolita, la regina delle Amazzoni. In quell'occasione cominciasti a tirare fuori la tua “grinta”. La danza e il testo si fusero in un armonica forma. Eri felice.
L'opera da tre soldi” era un lavoro complesso, impegnativo, veniva indicato dalla critica internazionale come “un magnifico esempio di arte totale”. Per la prima volta il gruppo si sarebbe cimentato con uno spettacolo che includeva oltre all'interpretazione del testo anche il canto e la danza. Il laboratorio era diventato più complesso, c'era una parte dedicata al canto, sia individuale che corale, si provavano coreografie collettive a volte accompagnate dal canto e tu hai anche realizzato un oggetto scenico. Le prove furono lunghe, le vicissitudini del gruppo complesse, ci fu un riassetto nella conformazione del gruppo che provocò un cambiamento nell'assegnazione delle parti. Ma il teatro, inteso anche come esperienza collettiva, è la rappresentazione della vita e a volte ci chiede di affrontare, ed elaborare, momenti nei quali una persona a noi cara può avere la necessità di allontanarsi, perché la vita la chiama ad impegni diversi.
Sia te che il gruppo, in quell'occasione, avete dimostrato una forza non comune.

Grazie a quel “muoversi-insieme” di cui parlo all'inizio di questo mio scritto, nonostante tutto siete riusciti a portare in scena uno spettacolo di grande qualità.
In scena c'erano degli attori e delle attrici che oltre all'interpretazione del testo, danzavano, cantavano. La vostra energia era stupenda. Nello spettacolo interpretavi la parte di Polly, la Figlia di Peachum, il re dei mendicanti. Fu allora che la “grinta” che hai cominciato a tirare fuori con Zeppa ti è tornava utile per portare in scena il personaggio di Polly, ribelle, irriverente, ironico, a volte strafottente, ma anche pieno di poesia. Un personaggio anche romantico, che parlava d'amore. Un personaggio che ti aiutava ad elaborare la complessità delle tue relazioni famigliari. Che ti ha aiutato a far emergere parti del tuo carattere e della tua personalità che fino ad allora non avevano trovato spazio. In questo spettacolo, che ti ha rivelato anche come cantante, le tue interpretazioni canore hanno donato al pubblico emozioni di grande intensità, grazie alla tua capacità espressiva, specialmente nella “Canzone di Barbara”.
Poi venne “Rugantino”, la famosa commedia musicale di Garinei e Giovannini, che esprimeva tutti gli aspetti della “romanità”. I “miei attori e attrici”accolsero questa proposta con entusiasmo perché era un lavoro vicino alla loro cultura. Una storia “d'amore e de cortello”, come diciamo a Roma, piena di dolcezza, rudezza e umanità. Una storia di potenti e di popolani, una riflessione sulle tematiche sociali, sulla politica, una finestra aperta sulla vita.
In questo spettacolo tutti avete cantato, danzato, avete e abbiamo riso, ci siamo “commossi” insieme. Per questa realizzazione spettacolare, hai anche realizzato una bellissimo disegno, che poi è servito alla realizzazione dell'oggetto scenico che rappresentava la “Bocca della verità”. Tu interpretavi il ruolo di Rosetta, romantica, volitiva, leale, appassionata, come è stata appassionata la tua interpretazione, come è stato appassionante il tuo canto, la tua danza il tuo stare in scena. Ti ho visto affrontare questo lavoro con entusiasmo sempre crescente, con una convinzione interpretativa, sempre più coinvolgente, eri dentro al personaggio, completamente, capivo che Rosetta aveva toccato delle corde “sensibili” della tua esperienza di vita, come Polly. Eri felice di interpretare quel personaggio. Ormai avevi acquisito anche la capacità di rotolarti per terra, cosa che per te, all'inizio del laboratorio di espressività corporea sembrava quasi impossibile. La tua interpretazione della canzone danzata, “Na' botta e via” è stata bellissima, drammatica, commovente. Una sera, in tournée, venisti a comunicarmi che avresti interpretato la canzone che il giorno prima, sembrava non saresti stata in grado di portare in scena, appunto “Na botta e via”. Apprezzai molto questo tuo gesto in quella circostanza e ti comunicai la mia grande soddisfazione di regista nel constatare che eri stata in grado di reagire ad una situazione di difficoltà, il tuo era stato un comportamento da vera attrice. In questa tournée, il mutuo aiuto nelle situazioni di difficoltà personali, la capacità di adattamento ad una situazione non abituale, la gioia e l'allegria che hanno accompagnato l'esperienza hanno contribuito ad elevare lo spirito di corpo e la qualità della “personalità” del gruppo.


Emanuele Conte,

grande comunicatore, ti diletti nel reinventare, per gioco, il significato delle parole, che spesso esprimi con ironia o comicità, in battute o discorsi che coinvolgono tutto il gruppo.

Il tuo approccio con i laboratori del Centro Diurno tenuti presso il T.A.M., ha avuto una fase iniziale con l'espressività corporea, alla quale hai partecipato per un certo periodo di tempo.

Poi ti sei allontanato dal laboratorio, i referenti del Centro Diurno mi dissero, che stavi passando un momento nel quale sentivi la necessità di elaborare un distacco da quel lavoro. Compresi che il tuo percorso di vita aveva bisogno di un' altro contesto. Fui felice nel vederti apparire di nuovo nella stanza di lavoro, avevamo messo in scena “Sogno di una notte di mezz'estate”, e tu mi dicesti che ti eri commosso fino alle lacrime nel vedere sulla scena, i tuoi amici o le persone che conoscevi, dei quali ne apprezzavi le qualità interpretative. Era il lavoro di gruppo che si percepiva durante la rappresentazione che ti aveva colpito. Quel gruppo, pieno di calore umano, di cui poi hai fatto parte, del quale hai sempre parlato con positività e riconoscenza , per l'importanza che ha avuto nella tua vita nel farti capire meglio situazioni personali e che hai, con il tuo atteggiamento, aiutato a superare un momento di difficoltà.

In quel momento si stava elaborando la messa in scena de “L'opera da tre soldi”, il lavoro era molto complesso ed impegnativo. Superati i primi momenti di un qualche imbarazzo iniziale, naturale in chiunque si avvicina per la prima volta all'esperienza teatrale, fosti in grado, di acquisire con facilità, le capacità espressive necessarie ad interpretare quel lavoro, compresa quella del canto. In questa occasione hai dato prova di grande collaborazione, dando il tuo aiuto alla realizzazione di alcuni oggetti scenici. Il ruolo affidatoti, fu del protagonista “Mackie Messer”. Era indubbiamente un personaggio complesso, per mezzo del quale l'autore, (Brecht) elabora un discorso socio-politico di denuncia dei mali della società, come molti dei personaggi da lui creati per i propri spettacoli .
La tua interpretazione è stata molto bella, di qualità, le tue capacità attoriche si sono rivelate naturali, insite nel tuo carattere, a volte simpaticamente istrionico, che in alcune circostanze ha bisogno di essere contenuto.

Ricordo benissimo che quelle erano tematiche che ti coinvolgevano profondamente in relazione alla tua visione della vita. Erano tue riflessioni che accompagnavano il lavoro che il gruppo faceva in relazione allo studio dei personaggi, come parte integrante del lavoro di laboratorio.
Ma il teatro anche per te, come per tutti gli attori che lo praticano e gli spettatori che ne usufruiscono ha questo aspetto “catartico”. In fondo è uno strumento inventato dal genere umano per potere con “commozione” aiutare se stesso a vivere.
Il secondo spettacolo al quale tu hai preso parte da protagonista è stato Rugantino. Anche questa volta affrontavi un personaggio di grande complessità che, vittima di un potere sociale e politico, riscatta la sua condizione esistenziale, grazie all'amore. Ricordo le riflessioni sulla chiusura dello spettacolo che sembrava troppo cruenta, ma necessaria a livello scenico, per il discorso di fondo sui valori dell'uomo, di cui l'opera era intrisa. Ma riuscisti ad elaborare anche questo comprendendo quale messaggio morale positivo il personaggio rappresentava. In questo spettacolo le tue qualità attoriche hanno preso spazio, si sono espresse nella forma migliore, il “tuo” Rugantino è stato frizzante, commovente, comico, drammatico. Ti sei appropriato sempre di più dello spazio scenico hai danzato, dando grande spazio alla tua corporeità, hai cantato, sei stato strafottente, amante, coraggioso, timoroso. Hai gestito situazioni nelle quali un tuo guizzo e una tua battuta hanno trasformato in comicità scenica un'esitazione, hai dimostrato quanto fossero estese le tue possibilità espressive. Queste sono le qualità che hai dimostrato e il pubblico ti ha applaudito calorosamente. Alla ripresa dei laboratori, ci hai reso partecipi di una tua grande gioia, la nascita di una bellissima bambina, tua figlia.


Mirella,

fui contento di ospitarti nel laboratorio di espressività corporea. Eravamo amici da tanti anni e questo non poteva che farmi piacere.

Fui anche contento di rivederti quando tornasti al laboratorio, dopo il periodo che ti ha visto impegnata con lo stato di salute del tuo compagno di vita, purtroppo conclusosi con la sua dipartita. Vedevo che il laboratorio ti faceva bene, eri molto partecipe, emozionata per le parti che ti assegnavo, anche se a volte questo ti ha procurato qualche imbarazzo iniziale. Ho sempre apprezzato il tuo impegno nel laboratorio di espressività corporea e di teatro, che continui a frequentare con assiduità. Ti ringrazio per la collaborazione che si è manifestata nell'effettuare anche lavori di costumistica, di aiuto dietro le quinte al gruppo al quale non hai mai fatto mancare il tuo appoggio. Un gruppo del quale hai fatto parte e del quale sei parte integrante. Un gruppo che non ti ha fatto mai mancare il suo affetto, da parte tua ricambiato. Con te vorrei ringraziare anche Annelise Battella, ora stimata psicologa, ex allieva dei corsi T.A.M. presente anche lei nei laboratori dalla messa in scena del “Sogno di una notte di mezz'estate”. Grande energia vitale, una persona entusiasta della vita con la quale hai stretto una bella amicizia. Non potrò mai dimenticare che Annelise non ha fatto mancare l'apporto al gruppo nonostante fosse in cinta da diversi mesi ormai, accompagnandoci nella tournée di Rugantino.

Un grazie anche a Francesca Amadori anche lei ex allieva T.A.M. responsabile del reparto di Terapia Cognitiva presso la Fondazione S. Lucia, titolare di un progetto di laboratorio di Espressività e Creativà a favore delle persone uscite dal coma, di cui faccio parte presso “Casa Dago”. A Cristina, Gabrielle, a Luana, e a tutte le persone che provengono dai corsi T.A.M. Un grazie a Sabrina, che partecipa come attrice e aiuto alla regia nella “Nostra Tempesta”.

Ai volontari ai tirocinanti, che hanno integrato i laboratori dando un apporto importante alla realizzazione dei progetti spettacolari. A tutto il nucleo degli operatori del Centro Diurno di Via Ventura sempre collaborativo e professionale.

Giuseppe

ho pensato alla lettera per te, per noi, come chiusura nel rispetto di quell'atteggiamento che ha da sempre contraddistinto la nostra collaborazione durante la quale, l'attenzione primaria è stata sempre verso le persone che compongono il gruppo di teatro, i protagonisti degli spettacoli.

Nel primo progetto spettacolare di cui hai fatto parte, “fresco di laurea”. come responsabile psicologo per l'attività teatrale promossa dal Centro Diurno di Via Ventura e che portavo avanti da diversi anni, ti trovasti da subito coinvolto anche come attore, dando prova che da parte tua c'era la volontà a “metterti in gioco”, c'era quel desiderio a commuoversi (muoversi insieme). Questo ha fatto si che la tua figura sia stata accettata e vissuta come parte integrante dell'esperienza umana ed artistica del gruppo. Fu molto bello ed “umano” vederti ricevere l'applauso incoraggiante del pubblico che ha capito “commosso” e partecipe una tua indecisione di “attore”, necessariamente improvvisato. Dopo quell'esperienza la nostra interazione si è definita sempre di più, in relazione ai nostri ruoli. Tu hai continuato a prendere parte agli spettacoli, con un coinvolgimento come attore, meno impegnativo, che ti ha permesso di espletare il tuo ruolo in maniera più definita. L'immagine del pubblico che ti applaude è emblematica.
Sono convinto che il teatro non sia un'estensione della psicologia, né che la psicologia sia un'estensione del teatro. Sono due risorse, che il genere umano si è dato, per tentare di spiegare, capire, elaborare, raccontare i differenti aspetti della vita .

Queste due risorse, apparentemente distanti, possono però trovare una possibilità di co-esistenza, quando sono utilizzate in un contesto di teatro applicato nel campo del disagio mentale, se i due ruoli professionali necessari, vengono salvaguardati e valorizzati.

Le due figure professionali, agendo in una situazione, che io chiamo di “vasi comunicanti” , metteno in atto una sinergia. Permettono di sviluppare le possibilità espressive, appannaggio della creatività, vitali ad ogni essere umano, senza far mancare la possibilità di elaborazione del vissuto emotivo, ad un livello terapeutico- riabilitativo.

Tutto questo è possibile se si da vita ad una esperienza attuata in un contesto di sperimentazione e di ricerca, dove i limiti che la parola teatro ci impone e quelli di un certo pensiero scientifico, che tende ad appropriarsi dei linguaggi che appartengono alla creatività, vengono superati.

Per questo penso che il tipo di teatro che io applico nel contesto del disagio mentale, sia da considerare come un teatro-in-terapia, piuttosto che teatro-terapia.

Era di questo che parlavamo all'inizio di questa nostra conoscenza, facendoci scoprire una visione dell'esperienza, condivisa.

Ma anche questa esperienza, iniziata sotto i migliori auspici, ha avuto bisogno di un periodo di rodaggio necessario per mettere a contatto e in sinergia le due personalità e le due discipline.

Superate le difficoltà iniziali, la continua valorizzazione a livello artistico e il costante sostegno psicologico, hanno permesso di affidare la parte a chi un un primo momento non era in grado di dare garanzie di continuità di presenza necessarie, o che aveva grandi difficoltà ad elaborare vissuti emozionali di una certa importanza.

Questo ha senza' altro giovato alla qualità espressiva dell'attore, elemento essenziale nei progetti spettacolari, e ha protetto la dignità della sua presenza sulla scena.

Il lavoro di laboratorio, si è indirizzato sulla possibilità di elaborare una qualità tonale della voce, correggere una certa monotonia espressiva, uscire fuori dai propri cliché, vincere le proprie titubanze, elaborare le dinamiche di movimento, l'interazione, il contatto fisico, sempre nel rispetto di una autonomia creativa.

Le mie indicazioni di regia, mostravano loro una modalità, senza imporre un modello espressivo. Questo ha permesso di sbloccare una possibilità espressiva nascosta, o l'avvicinamento, in alcuni casi per la prima volta, ad emozioni sopite o represse.

Sotto questo aspetto è stato importante, elaborare i vissuti emozionali del personaggio, in un luogo, il laboratorio ed il palcoscenico, dove le emozioni sono possibili. L'amore, la passione, l'ironia, il coraggio, la forza d'animo, il timore, la gioia e la tristezza, il pianto e il riso e quant'altro attiene ai vissuti emozionali dell'essere umano.

Interpretare come attori questi aspetti del personaggio, ha significato per alcuni di loro, la possibilità di elaborare sia a livello umano, che sotto il profilo psicologico, un percorso che li ha portati al superamento di alcune difficoltà, anche importanti.

Sempre per mezzo di un lavoro collettivo, grande attenzione è stata posta agli aspetti che riguardavano la tematica, la metafora, il messaggio umano e sociale, insito nell'opera teatrale messa in scena. Ognuno di loro ha interpretato questi elementi secondo la propria visione delle cose, in relazione alle sue possibilità, mettendo in luce una varietà di interpretazioni, anche poetiche dei significati dell'opera.

Penso che il teatro sia stato il “collante” giusto, che anche per mezzo della tua azione, ha permesso di elaborare dinamiche interne la gruppo stesso.

Gli spettacoli portati in scena da questo magnifico gruppo sono stati sia drammatici che comici mettendo in luce la duttilità interpretativa e qualità espressiva dei suoi componenti

Abbiamo fatto insieme un percorso nel quale ci siamo messi in gioco, noi come loro.

E' grazie a questo che la qualità umana ed artistica del gruppo è cresciuta e “Rugantino” è l'emblema di questa crescita collettiva.

In “Roma non fa la stupida stasera”, l'armonia del gruppo diventa tangibile, la “commozione” dello spettatore, partecipe, è totale, in quanto riconosce in quello che sta vedendo, qualcosa che lo riguarda, come umanità.. Questo è lo scopo del teatro.

In questo momento il gruppo è impegnato in un progetto di auto-drammaturgia, applicata ad un testo già esistente. “La nostra tempesta” è uno spettacolo che prende spunto dalla “Tempesta” di Shakespeare, usata come canovaccio base su cui innestare storie e immagini poetiche, vissuti, esperienze, stati d' animo che lo scritto ispira.

Man mano che i componimenti letterari dei partecipanti al laboratorio, integrato da attori del TAM , anche loro chiamati a tale elaborazione, ha avuto vita e forma, ha preso il posto di parte dello scritto di Shakespeare.

Questo ha permesso di creare un armonico linguaggio teatrale che coniuga il testo del grande drammaturgo con quello del gruppo, dando vita ad uno spettacolo che risulta una ri-lettura della “Tempesta”. Il processo di realizzazione degli scritti è stato lungo e complesso. Parlare in prima persona di sé non è mai facile, ma è stato bello vedere i componenti del gruppo dapprima titubanti, avvicinarsi alla possibilità espressiva legata alla scrittura. Per qualcuno di loro non è stato possibile acquisire la capacità della scrittura poetica, che ha fatto parte degli elementi di laboratorio. Come sempre però, il loro impegno si è espresso ai massimi livelli ed ha prodotto comunque degli scritti di alto valore umano, la cui qualità sarà evidente nel momento in cui leggerete questa pubblicazione. In questi scritti troverete riflessioni, racconti di un'esperienza, emozioni, visioni della vita, a volte anche drammatiche, che ognuno di loro ha raccontato secondo le sue capacità e il suo stile. L'attuazione di questo progetto ha permesso ad alcuni di loro di entrare più in contatto con il proprio mondo interiore e creativo.

Con riconoscenza parlo di Maria Eugenia Fiammetta Pesce, dottoressa responsabile del Centro Diurno Di Via Ventura con la quale mi sono trovato sempre in sintonia umana, professionale, intellettuale ed ho condiviso immagini, idee, progetti. Ho sempre apprezzato ed ammirato la sua dedizione, il suo entusiasmo, il suo mettersi in gioco in prima persona, che non ha mai fatto mancare il suo appoggio e la sua presenza al gruppo . E' stata sempre un grande punto di riferimento. Grazie anche alla sua cultura e modernità di pensiero, è stato possibile portare avanti progetti che hanno prodotto dei risultati di qualità umana ed artistica rilevante.

Abbiamo visto ancora una volta fiori che sbocciano aprendo le corolle.

E riempiono l'anima di poesia.

Massimo Ranieri


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Contirbuto letterario alla pubblicazione del libro IL PUBBLICO DEL TEATRO SOCIALE edito dalla FrancoAngeli

La Pubblicazione è curata da Ivana Conte


Dal Living Theatre ai Doni di Talia:

teatro di ricerca e comunità, teatro sociale e pubblico: variabili



Il teatro di ricerca e la comunità di attori/spettatori


1978, Roma, interno del Teatro Alberichino.

Un uomo sale su una pedana che poggia su una struttura in tubi innocenti, ad una altezza di circa quattro metri. Sotto di lui si forma una doppia fila di circa 15 persone per ogni fila, le braccia di ognuno sono protese in avanti, con le palme delle mani rivolte verso l'alto, ad intersecarsi con quelle della persona che ha davanti a sé ma senza afferrare le braccia dell'altro.

L'uomo, con l'accento simpaticamente americano, che strascica le vocali finali delle parole, “scivola” marcatamente la “R”, e accentua la “T”, dice :“Tu può volareii! No con fantasia, ma realmenteii!! Se tu credeii veramenteii questo, Tu può!!!

Quindi, come se recitasse una formula magica, Julian Beck del Living Theatre emettendo tre profondi respiri canta, insieme al tutto il gruppo. “Respirarei!!!, Respirareii!!! VOLAREIII!!!!.

Apre le braccia - che a me sembrano un dispiegarsi di ali - e si lancia nel vuoto, un volo perfetto che punta verso l'alto, mentre le “ali” si uniscono, nella parte terminale del volo.

Il suo corpo, seguendo una parabola perfetta, viene accolto dalle due file di braccia.

Fui sorpreso nel constatare quanto dolce poteva essere l'atterraggio e quanto leggero fu l'impatto con le mie braccia nell'accogliere quel corpo. Il gruppo accoglie l'uomo che ora ha gli occhi chiusi, lo culla con un movimento ritmico in avanti e indietro poi lo adagia sul pavimento, con delicatezza lo carezza, lo abbraccia, si prende cura di lui, fino a quando apre gli occhi.

Si poteva fare! Si volava! Non ci avevo mai pensato, d'altra parte i tuffatori lo fanno, gli acrobati lo fanno, i ginnasti lo fanno.

Ma quello che si faceva allora era fuori da ogni contesto sportivo o professionistico.

Ci si doveva fidare di se stessi, affidarsi a qualcun altro che si conosceva da troppo poco tempo.

La sensazione che ho quando salgo anch'io sull'impalcatura è di stupore, paura, esaltazione, ma una volta accolto dalle braccia del gruppo, soprattutto gratificazione, nel sentirsi accudito, stimolato, incoraggiato a volersi bene da un gruppo, un contesto che facendo della responsabilità verso gli altri un valore assoluto, in quel caso senza mediazioni, mi sta trasmettendo il germe di qualcosa che avrei percepito più tardi nel corso della mia ricerca.

Era quello, un contesto dove ebbi la possibilità per la prima volta di venire a contatto con quelli che erano considerati i capostipiti di una scuola di teatro che aveva scardinato le barriere tra pubblico e spettatore.

La didattica teatrale si basava sul condividere un'esperienza che era personale ma anche collettiva dove il contatto corporeo l'accudimento reciproco era uno dei fondamenti del lavoro.


Con Julian Beck partecipo poi a tre performances all'aperto in tre differenti luoghi di

Roma (sul sagrato di una chiesa contro la repressione sessuale, a piazza Campo de Fiori sotto la statua di Giordano Bruno contro la repressione del potere, a Piazza Farnese contro la guerra ) durante le quali il pubblico viene coinvolto a prendere parte ad una azione che prevede di mettere in atto il “volo”. Naturalmente la posizione di partenza è più bassa, ma si realizza lo stesso tipo di accadimento per chi accetta di lanciarsi tra le braccia del gruppo.

La quarta performance è al teatro Argentina durante uno spettacolo che racconta della presa del Palazzo d' Inverno durante la rivoluzione Russa. Julian invita parte degli spettatori a formare squadre che rappresentano le truppe dello Zar e i Rivoluzionari e crea così un movimento che amalgama l'azione scenica al pubblico.


L’'attore si prepara a divenire mediatore


ll lavoro con Stanislaw Scierski “Stasceck” ha inizio al tramonto per finire all'alba, si svolge per la prima parte all'interno della sala di lavoro (circa quattro ore di training); sembra che dopo la prima mezz'ora, non sia più possibile continuare a causa dell'intensità richiesta, ma affiorano energie insospettate.

In ognuno di noi, la stanchezza aiuta a sbloccare i movimenti perché entrano in gioco energie sempre nuove e il corpo non viene più controllato mentalmente, la parte emozionale del nostro essere prende il posto di quella razionale .

Non è un lavoro di training classico, in quel momento il gruppo di Wroclaw abbandona l'aspetto ortodosso del lavoro.

Il corpo è impegnato in un in movimento senza soluzione di continuità. Si evolve tra ritmi di potente intensità ed altri meno intensi, nei quali l'interazione è alla base del lavoro, e si creano invenzioni nelle quali viene raggiunta a liberazione del corpo dalle leggi estetiche tradizionali. Impariamo a danzare con le nostre ombre ( ottenute posizionando un faro in fondo alla sala), le sagome rimpiccioliscono o si ingrandiscono quando ci si avvicina o ci si allontana dalla fonte di luce. Prendiamo a danzare con la nostra silouette , un “sé” che sembra avere una vita “propria”.

La seconda fase del lavoro si svolge fuori, nella campagna circostante il centro di ricerca “Arcoiris”, ora affollatissima zona della periferia di Roma (Casalotti), ma all'epoca aperta campagna.

Una notte mi allontano da solo dalla sala di lavoro con una lampada a petrolio e la mia armonica a bocca. I campi sono stati arati durante la giornata e su tutta la campagna e il bosco che si trova ai margini di essa, grava una nebbia abbastanza fitta, alta. Mi inoltro in aperta campagna e lascio la lampada a terra, poi senza un motivo logico inizio una azione di allontanamento dalla fonte di luce che gradualmente diventa sempre più fioca, fino a scomparire del tutto. Perdo ogni punto di riferimento vivendo sensazioni di paura, abbandono, solitudine.

La nebbia fa apparire le fronde degli alberi (mosse da un vento non troppo forte) immagini che io traduco come paurose, terrificanti: i miei fantasmi. Ma non mi muovo in direzione della luce che comunque non è più percepibile, vado verso le ombre come ad esorcizzare la paura, arrivo direttamente nel bosco, con il cuore che batte forte.

La sensazione di solitudine cresce, diventa insostenibile.

Trovo una radura, mi sdraio supino sul terreno fumante, ho gli occhi rivolti verso il cielo, appaiono le stelle. Comincio a respirare l'odore della terra, ad essere accudito dal suo calore, come da un caldo abbraccio materno, avverto che il mio stato d'animo sta cambiando. Sento salire l'energia della terra che si fonde con quella delle stelle e comincio a danzare, libero, tra la terra, il cielo e le stelle e danzo, danzo, come mai avevo fatto prima.

La paura scompare e un benessere, una gioia, una felicità mai provati si insinuano nella mia anima. Nella danza riappare la luce fioca del lume a petrolio, mi dirigo verso di essa, consapevole di vivere un'esperienza di una ricchezza indescrivibile. Torno all'alba verso la sala di lavoro, la lanterna non si è ancora spenta e l'armonica suona ancora…

Prima di dare inizio ad una nuova notte di lavoro ci si riunisce per parlare delle nostre esperienze e io racconto la mia.

Stasceck non usa una sintassi tradizionale, comunica per immagini poetiche, le sue parole sono evocatrici di emozioni, sono pura poesia adattata al linguaggio comune.

Dice che è proprio per quello che noi siamo li, la terra e il cielo sono parte di noi.

Ma, profondamente, nessuno di noi sa perché siamo lì.

La solitudine apre l'incontro verso gli altri.

Il tempo facile non è quello passato insieme, ma al contrario.

Non possiamo chiedere a chi viene dal deserto.

Questo non cambierà la nostra vita.

Qualcuno di noi lamenta di non riuscire a “sentire” gli altri dicendo che il gruppo non c'è.

Non ci si può condannare ad essere un gruppo perché non saremo un gruppo.

Se creiamo un gruppo a difesa del mondo creiamo un ospedale.

Una sera accendiamo un fuoco e formiamo un cerchio intorno ad esso poi Stacseck comincia un movimento impercettibile di dondolamento dalla posizione seduta.

Tutti facciamo la stessa cosa, il movimento, lentamente, si accentua, diviene un movimento nello spazio. Ci allontaniamo dal fuoco dirigendoci verso la boscaglia, ci perdiamo di vista. Un canto libero ha inizio, le voci si alternano, siamo in contatto solo con la voce. Ha luogo un dialogo armonico di anime che va avanti per tutta la notte.

Il laboratorio si conclude con un'azione personale che solo allora è condivisa da tutti i partecipanti.

Prendono vita incontri che, attraverso percorsi tra fuochi, suoni, parole, danze e canti, attivano un donare ed un ricevere.

Un momento magico durante il quale viviamo l'offerta, l'accettazione, la condivisione.

Il gruppo tanto cercato ora è nato.

Ancora una volta accudiamo noi stessi e gli altri.

Poi uno ad uno andiamo a colloquio con lui.

Non per un lavoro di valutazione ma per un commiato da quella esperienza.

C'è la luna - mi parla della luna che si rispecchia nel mare (“la mère, in francese, - mi dice - vuole dire mare e madre”). “Continua” - mi dice Stasceck .

Ci ritroviamo poi a Wroclaw (Polonia) nel gennaio seguente, fuori ci sono 25 gradi sotto zero.

L'appuntamento è in relazione al progetto di parateatro “L'albero delle genti”, un incontro internazionale al quale prendono parte circa 50 persone (dovevano essere di più, ma le condizioni meteorologiche di quell'inverno impediscono a molti di raggiungere la destinazione).

I cerimoniali d'accoglienza si protraggono fino a notte fonda perché veniamo chiamati uno alla volta; (io sono uno degli ultimi); consegnamo i nostri documenti e, soprattutto, i nostri orologi; le finestre sono oscurate, quindi non si può avere la percezione del passare del tempo. L'organizzazione del “lavoro” prevede un utilizzo della sala da training senza limitazioni di tempo: non avendo orologi non ci sono orari da rispettare.

Ci si riposa quando si è stanchi, si mangia quando si ha fame, (è stata organizzata una cucina self-service al piano terra alla quale si può accedere a qualsiasi ora) ci si lava alla bisogna, si dorme quando si ha sonno.

Molto emozionante è il momento in cui, a piedi nudi, entro nella sala di lavoro che avevo visto nelle immagini pubblicate sul libro “Per un teatro povero” di Grotoswky.

Ci sono delle persone che agiscono, qualcuno di loro è del gruppo del “Teatr

Laboratorium di Wroclaw”.

Mi ritrovo ad “agire”con una donna, una di loro; il nostro contatto avviene solo per mezzo delle nostre teste, come se il corpo fosse formato solo da quelle. Ma c'è tanto in quel contatto: la nostra anima. Passa un tempo incalcolabile, poi siamo stanchi.

E’ la prima volta, dopo trent’ anni, che scrivo di questa esperienza, ancora custodita gelosamente dentro di me, come un tesoro nello scrigno.

Come tengo ancora in quello scrigno tutte le altre esperienze vissute in quegli anni: dalla Fondazione del Teatro dell'I.R.A.A. (Istituto di Ricerche Antropologiche sull'Attore). al T.A.M. (Teatro Arte in Movimento) da me fondato nel 1991.

Le mie “visioni” sono ancora nitide, chiare nell'anima e nel corpo.

E' da questo scrigno, ora pronto ad aprirsi, che traggo ancora un'immagine dell'esperienza “grotowskyana”.

Siamo nella sala da training; gioco, nel senso letterale del termine, con Cyncutis (uno dei componenti del gruppo originario del Teatr Laboratorium); ci togliamo delle piccole cose dai nostri corpi serrandole con la punta delle dita, l'indice e il pollice, e le lanciamo sul corpo dell'altro.

Questo gioco iniziale si trasforma, per evolvere in un'azione di relazione di intensità altissima; tutti i componenti del gruppo presenti nella sala si fermano, si siedono ai bordi; al centro dello spazio ci siamo soltanto noi.

La nostra azione prende il “volo”, siamo completamente avvolti, coinvolti; Cyncutis interagisce con me in un modo così accudente che non mi accorgo di lavorare con un maestro.

L'azione si esaurisce, ci fermiamo. Cyncutis senza parlare lascia la sala, io mi siedo completamente bagnato di sudore, avvolto da un'energia ancora pulsante, sono frastornato, felice. Solo ora mi rendo conto fino in fondo di aver interagito con lui.

Cyncutis rientra nella sala, ha nelle mani due bicchieri colmi di the caldo, si dirige verso di me, mi sorride, mi offre uno dei bicchieri, gli sorrido.

Beviamo il the senza dire una parola. Mi sento amato.

Un detto Zen dice: “Il vero maestro non lascia orme sulla neve”.


Ci incontriamo di nuovo a Milano in occasione delle ultime rappresentazioni di “Apokalypsis cum figuris”

Sulla soglia del luogo dove si sarebbe svolta la rappresentazione c'è Stascheck , mi tende la mano, io tendo la mia con l'intenzione di salutarlo, lui mi stringe la mano e con uno strattone mi tira dentro.

Mi abbraccia, mi cinge le spalle e parlandomi a bassa voce mi chiede di fare da cerimoniere per il pubblico. Avrei dovuto accompagnare due spettatori alla volta a prendere posto nello spazio riservato al pubblico, posto a semicerchio lungo il perimetro, al centro del quale si sarebbe svolta l'azione scenica.

Chi mi aveva accudito mi sta chiedendo di accudire gli altri.

Lo faccio, con gratitudine e riconoscenza, conscio che quel compito non l'avrebbero dato a chiunque: mi sentono dunque uno dei loro.

Tutto si svolge senza parlare con gli spettatori, non ce n'è bisogno.

L’ incontro con la comunità dei “diversi”

Ho sempre pensato che, tra le varie forme di espressione artistica, l’arte del teatro è quella il cui accadimento è legato alla presenza fisica, nello stesso spazio e nello stesso tempo, di due fattori o elementi umani: l’Attore e lo Spettatore, i quali danno vita - nel senso “del mettere in atto” nel momento irripetibile del “qui ed ora” della rappresentazione drammaturgica – ad ” un racconto-agito”,il racconto dell’umano.

E’ per questo che considero l’arte teatrale, “arte sociale per eccellenza” e “arte del raccontarsi”.

Un racconto che può attingere ad opere di drammaturgia, a testi di teatro popolare, alla teatralizzazione di elementi di cultura popolare o di avvenimenti storici, a testi di letteratura, sia antica che moderna, ma anche a testi realizzati dall’attore stesso.

Ciò non vuol dire che l’attore debba necessariamente trasformarsi in drammaturgo, ma nel suo processo di formazione potrà confrontarsi con la propria capacità d'improvvisazione, sia corporea che verbale, in altri termini, svilupperà o affinerà le sue capacità creative.

La mia esperienza di impegno nel teatro sociale, inizia nel 1978 presso l'ex Ospedale Psichiatrico di Trieste dove, dopo un laboratorio durato un mese, al quale presero parte pazienti ed operatori, sia all'interno dell'ex O.P.    che  nelle strutture operanti già da allora sul territorio, si dette vita ad uno spettacolo teatrale di intervento urbano , dal titolo “Scomposizione e ricomposizione di un quadro di Paul Klee”, con musica dal vivo maschere e scenografia semovente. 

Era la parte iniziale del cammino  di un gruppo teatrale (Teatro dell'I.R.A.A. Istituto di Ricerche Antropologiche sull'Attore), di cui sono stato tra i fondatori. Ci furono altre esperienze nel campo della psichiatria ma sporadiche e spesso osteggiate da operatori che non avevano la cultura e la volontà di mettere in atto un cambiamento.

Ci dedicammo, allora, più intensamente ad esperienze di tipo antropologico, effettuando ricerche sul campo in vari continenti (Sud America, Australia, India, Nord Africa la stessa Europa e l'Italia stessa).

La socialità del teatro durante queste esperienze mi è parsa sempre più chiara.

In quei contesti non c'era un teatro presso il quale effettuare gli spettacoli, non si costruivano luoghi “canonici” del teatro,  ma la natura, spesso, era il luogo deputato, dove il rituale di benvenuto, la danza descrittiva di un atto quotidiano (quale la raccolta delle larve o delle bacche, la caccia, il movimento scaturito dall'atto di raccogliere un frutto) erano la base di un vissuto sociale, attraverso il quale la comunità intera partecipava alla realizzazione di una danza, una rappresentazione, un racconto, un atto poetico.

Questa ricerca è continuata anche dopo aver lasciato il Teatro Dell'I.R.A.A. e fondato il T.A.M. (Teatro Arte in Movimento).

Dal 1991 ad oggi il mio lavoro di attore, regista e conduttore di laboratori si è realizzato in forme e luoghi molteplici.

Il cuore della ricerca è stato costantemente il Centro Culturale Ditirambo di Roma, all’interno del quale si è formato un gruppo di attori disabili che segue i laboratori integrati del TAM da ben 18 anni.

Posso sicuramente affermare che ognuna di queste tante esperienze ha creato un gruppo a sé stante ed una “comunità” teatrale che non ha mai avuto (neanche come teatro dell’I.R.A.A. o T.A.M.) la spasmodica ricerca della messa in scena a tutti i costi.

Lo spettacolo è sempre stato un momento del percorso formativo conoscitivo indirizzato soprattutto al gruppo che lo componeva, che fosse composto da persone disagiate, con diverse abilità oppure cosiddetti normo-dotati.

La fusione che ho cercato di mettere in atto nei lavori tra persone che frequentano i corsi T.A.M. e le persone seguite dai centri diurni riabilitativi anche in situazione di “handicap” gravi, ha spero contribuito a creare una cultura di gruppo unica nel suo genere, fatta di quel dare e ricevere, chiedere e donare che è uno dei fondamenti anche del training, portatrice di un linguaggio nuovo, moderno, stimolatore di una nuova poesia corporeo - verbale, basata sull’ uso della molteplicità dei diversi codici espressivi, a volte giocati dallo stesso attore.

Ma, a mio giudizio, il pubblico non è ancora pronto ad accettare un linguaggio così nuovo che sradica emozioni con forza sorprendente, e richiede un’espandersi dell’anima da parte di chi guarda, un lasciarsi andare come ad una musica che in fondo non può avere un titolo perché è legata alla libera immaginazione e all’emozione di chi l’ascolta

Purtroppo si sta creando un teatro di genere, cercando di relegare questo linguaggio in festival di teatro e handicap, che a volte si organizzano su di un piano squisitamente politico, dove addirittura vengono messi in palio dei premi.

Penso che sia ancora lontano il tempo nel quale le persone in situazione di disagio vengano considerate veri artisti.


N. B. Questo scritto non vuole né può essere esaustivo di tutta l’attività svolta dall’autore nei contesti di cui si narra; sono stati estrapolati quegli elementi del lavoro che danno vita ad immagini e riflessioni in relazione alla tematica sul teatro sociale (dall’esperienza diretta alla costruzione del teatro di comunità).

Massimo Ranieri



 
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